La mancanza di misure antipovertà in un paese europeo come l’Italia che rappresenta la settima potenza industriale al mondo, è una vergogna talmente grande che la politica, i sindacati, tutta la società civile non dovrebbero parlare d’altro. Esistono nel nostro paese milioni di cittadini (tra cui moltissimi nuclei famigliari) che non hanno alcun reddito e che, lavoro nero a parte, ma si tratta solo di alcuni – vivono di espedienti, nella precarietà e miseria più assolute. Tra di loro ci sono cittadini che poveri sono diventati per un accidente della vita – perdita del lavoro, una malattia invalidante come un tumore – e che quando si trovano improvvisamente senza reddito, magari dopo una vita normale e dignitosa, non trovano uno Stato che li aiuta, ma il nulla assoluto. Per tutto questo la decisione del governo di introdurre un reddito di inclusione per ridurre la scandalosa quantità di poveri nel nostro Paese – e quindi di minori poveri, scandalo nello scandalo – è certamente benvenuta, anche perché prevede un percorso di inserimento del mondo lavorativo, dunque non solo una semplice “mancia”. Purtroppo, però, come spesso accade, l’annuncio roboante “di una nuova stagione del nostro welfare” (Patriarca del Pd) è  falso. Perché, per dirla in sintesi con le parole dell’Unione dei consumatori, “gli importi sono vergognosi e la platea è insufficiente”.

Anzitutto una premessa. Chi plaude alla nuova misura con articoli o comunicati di elogio dimentica, come ha scritto in maniera eloquente Luciano Cerasa su Il Fatto quotidiano del 30 agosto, che per una misura introdotta ce ne sono due cancellate: la carta Sia (Sostegno all’inclusione attiva) e la carta Asdi (Assegno sociale di disoccupazione). La prima è entrata in vigore nell’aprile 2017 e morta praticamente subito. La seconda era una misura specifica per i lavoratori disoccupati beneficiari in passato dell’indennità mensile di disoccupazione (NASpl), anch’essa eliminata. Non c’è dubbio allora che il titolo dell’articolo di Cerasa, “Il reddito di inclusione prende ai poveri per dare ai poveri”, già ben spiega quanto la misura abbia un carattere farsesco, visto che il governo usa sostanzialmente soldi già messi nel piatto da prima.

Ma soprattutto ciò che non funziona è il contenuto della misura, con la solita ragnatela di vincoli così stretti che si finisce per lasciare fuori gran parte dei bisognosi. Per accedere al Rei, infatti, bisogna avere un reddito Isee non superiore ai 6000 euro – un tetto bassissimo, persino inferiore a quello che individua la povertà assoluta – un patrimonio immobiliare mai sopra i 20.000 euro (esclusa la prima casa), non più di 10.000 euro in banca;  non bisogna possedere un’auto sopra i 1300 cc immatricolata nei 12 mesi antecedenti la domanda o una moto sopra i 250 cc, immatricolata nei 3 anni precedenti la richiesta. Occorre la presenza di adulti disoccupati nel nucleo familiare. Quanto agli importi che gli esuberanti articoli non specificano, i tanto sbandierati 584 euro mensili sono riservati a famiglie dai 5 componenti in su – pochissime! – mentre l’assegno parte da 149 euro mensili, soldi che certo non consentono a un singolo o a una coppia di uscire dalla povertà.

Dunque, come spiega con pazienza la sociologa Chiara Saraceno – cui viene assegnato sempre l’ingrato compito di dire la verità qualche pagina dopo rispetto alla notizia della prima pagina – se anche i soldi stanziati raggiungessero i due miliardi mai coprirebbero i 4,5 milioni di poveri assoluti, né tantomeno i 130mila minori al loro interno. La combinazione di soglie Isee e di importi molto bassi, scrive sempre la sociologa, favorisce  minori, donne incinte, over 50, disoccupati di lungo periodo, disabili, ma chi è giovane o ha comunque meno di cinquantacinque anni, non è disabile e non vive con nessuna di queste categorie di persone, oppure fruisce del Naspi o ha un’occupazione, difficilmente avrà accesso al sostegno a parità di condizioni economiche, anche se sta messo peggio. Tutto questo rende il Rei scarsamente universalistico, tutt’altra cosa dal reddito di cittadinanza o misure simili, e molto “categoriale”. A maggior ragione appare assurda la norma che stabilisce che il sostegno non possa andare oltre i 18 mesi, col rischio di tagliare le gambe a chi sta cercando faticosamente di uscire dalla povertà.

In conclusione, dunque, certamente questa misura è meglio di niente. Ma quando la vai a vedere da vicino, scopri che sfiorerà una piccola parte di poveri, che comunque non darà loro un reddito sufficiente a sopravvivere dignitosamente e che si tratta assurdamente di una misura che finisce dopo un tot di tempo, anche quando il bisogno, drammaticamente, permane.

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