Il mio ultimo post ha generato, com’era prevedibile, un’ondata di lamenti/insulti sia nei commenti che sui social network, ponendo il luce come diverse post-verità siano purtroppo largamente accettate e come invece il più rilevante trend di fondo passi quasi inosservato, nonostante rischi di rivoluzionare completamente la struttura del lavoro dipendente.

Ai più sembra che la recente protesta dei tassisti riguardi essenzialmente qualche euro di risparmio per alcuni utenti, abbastanza nerd da volersi ostinare a chiamare le auto pubbliche con un’app, da ottenersi al costo di mettere sul lastrico una categoria di piccoli imprenditori, che spesso si sono indebitati per acquistare la licenza. Aggiungete la perfida multinazionale che brucia miliardi per conquistare terreno, sfruttando legioni di nuovi proletari a chiamata e la ricetta del populismo disinformato è servita.

La simpatia per la categoria può avere origini culturali o essere ispirata da ideologie politiche, in questa sede è sufficiente specificare che si tratta appunto di arbitraria idiosincrasia priva di qualunque argomentazione a sostegno: mentre oggi anche gli economisti de Lavoce.info teorizzano modelli per indennizzare la perdita del privilegio oligopolistico attualmente accordato a chi ha una licenza, nessuno sembra essersi posto analogo problema per le innumerevoli altre categorie di imprese e lavoratori che hanno ceduto il passo alla concorrenza o alla innovazione tecnologica. Nel contratto con il quale queste persone hanno acquistato la licenza, non era previsto alcun diritto al mantenimento di uno status privilegiato di limitazione della concorrenza, dunque la scelta di indebitarsi per acquistarne una, in un mondo dove il car sharing e la mobilità alternativa sono in crescita e le self driving car sono alle porte, rientra nell’ordinario rischio d’impresa.

Per quanto attiene al dumping – la vendita di un bene su un mercato estero a un prezzo minore rispetto a quello d’origine, ndr – della multinazionale sfruttatrice, oltre che logicamente infondato è di fatto incompatibile con le modalità con le quali il servizio è strutturato. Un presupposto essenziale di questa pratica sleale, consiste nella possibilità, una volta eliminati gli attuali operatori di mercato, di proteggere la propria posizione dai concorrenti potenziali. Questo ovviamente non è possibile a società come Uber, che evidentemente non hanno alcun interesse a conquistare quote di un mercato, che poi non potrebbero difendere.

Inoltre, per concretizzare la tecnica di concorrenza sleale, sarebbe necessario far pagare al cliente un costo inferiore a quello pagato dall’autista, cosa che di fatto non avviene mai: se Uber registra delle perdite non è perché offre servizi sottocosto, ma perché sta investendo in tecnologie innovative come le self driving car, nella prospettiva di arrivare preparata al momento in cui in cui esse diventeranno dominanti.

Quel che però veramente rileva e prescinde dalle proteste italiane e dalle fortune di Uber è la tendenza verso la destrutturazione dei rapporti di lavoro originata dalla riduzione nei costi di transazione tra gli individui e dai mutamenti nella struttura sociale nella direzione di una più ampia offerta di soggetti disponibili a lavorare “a chiamata”.  Che ci possa sembrare socialmente accettabile o eticamente ripugnante, la stessa tecnologia che ci consente di rivendere un biglietto nominativo per una partita, trovare un passaggio in auto da Roma a Milano o trovare una stanza in affitto (oppure ospitalità gratuita) in un paese straniero, potrebbe rivoluzionare il modo con il quale abbiamo concepito fino ad oggi i rapporti di lavoro subordinato.

Se un tempo poteva avere senso e convenienza ad esempio per una casa editrice, una testata giornalistica o una società di comunicazione assumere del personale full time per mansioni di traduzione, editing, ricerca ecc, così come molte imprese che avevano bisogno di servizi di progettazione, analisi, elaborazione dati ritenevano indispensabile assumere del personale in grado di svolgere queste attività, oggi è possibile contattare a costo irrisorio una rete virtualmente illimitata di collaboratori a distanza, magari residenti in aree geografiche dal costo della vita molto conveniente e sostituire quei posti di lavoro a con rapporti di consulenza a chiamata. Non si tratta poi di una semplice corsa al risparmio, i collaboratori free lance, talvolta sono esperti di settori molto specifici che riescono a farsi pagare per le singole chiamate molto più dell’equivalente che percepirebbero con un impiego a tempo pieno.

Ci siamo abituati a veder sparire la maggior parte dei casellanti con l’arrivo del Telepass e un nutrito numero di bancari dopo l’introduzione dei bancomat e del remote e mobile banking, il prossimo stadio vedrà molto probabilmente la sostituzione di un significativo numero di impieghi a tempo pieno con rapporti basati sul pagamento della singola attività lavorativa svolta. La querelle tra i tassisti e Uber è solo la punta dell’iceberg costituito dalla trasformazione strutturale in atto nei rapporti di lavoro. Invece di dedicare energie alle petizioni dei candelai sarebbe opportuno cercare di predisporre meccanismi di sostegno per i lavoratori più deboli e meno giovani che potrebbero avere maggiori difficoltà ad affrontare questo tipo di cambiamenti.

@massimofamularo

Articolo Precedente

L’uscita dall’euro sarebbe sciocca. Il potere è delle banche

next
Articolo Successivo

Netflix e Amazon alla conquista del mondo (e delle tv)

next