Adesso che il caparbio patron di Esselunga ha deposto le armi anche gli avversari di una vita gli rendono l’onore delle armi dalla vicenda umana e imprenditoriale di Bernardo Caprotti è possibile trarre una chiave di lettura per comprendere l’economia italiana, le ragioni della sua mancata crescita e le eventuali soluzioni per il suo rilancio.

Posto che l’innovazione è un ingrediente fondamentale per la sopravvivenza e la crescita di qualunque realtà imprenditoriale (negli anni più recenti, con l’accresciuta concorrenza internazionale e l’accelerazione degli sviluppi tecnologici si può dire che sia diventata la determinante principale), in Italia in passato l’innovazione di tipo incrementale è stata in di gran lunga prevalente rispetto a quella “distruttiva”. E’ abbastanza raro che un’impresa italiana riesca a rivoluzionare radicalmente un processo o un prodotto creando nuovi mercati, più comune, invece che raggiunga l’eccellenza senza snaturare gli elementi tradizionali, ma anzi valorizzandoli al massimo.

In quest’ottica il successo di Esselunga è un caso esemplare della “via italiana” al fare d’impresa, una strada fatta di lavoro duro, formidabili intuizioni nel marketing, nell’organizzazione e nel controllo della qualità, con l’aggiunta di una cura maniacale per i particolari: Caprotti non ha inventato nulla di particolarmente nuovo, ha importato dagli Stati Uniti un modello di business che si è rivelato di successo ed è riuscito a individuare con anticipo sui propri concorrenti la dimensione ottimale degli esercizi commerciali per soddisfare al meglio il suo target di clientela, una grandezza intermedia tra quella dei supermercati tradizionali e quella degli iperstore.

Ma per avere successo, nel nostro paese, non è sufficiente lavorare sodo e soddisfare i clienti, bisogna anche superare gli ostacoli costituiti da istituzioni e regole che sembrano concepiti per scoraggiare chi vuol creare valore, affrontare amministratori e politici che possono talvolta non guardare di buon occhio chi vuol portare concorrenza ai “campioni locali”, come raccontato nel libro Falce e Carrello, tralasciando per carità di patria i profili tributario e contributivo.

La lezione del “Mago di Esselunga” è quindi quella di ricordarci che a fianco al capitalismo di relazione (quando non spudoratamente di clientela) legato a doppio filo ad amministratori, politicanti e banchieri esiste una solida tradizione di imprenditori capaci di affermarsi (Esselunga è ai vertici internazionali per la produttività per metro quadrato – fonte Centromarca) con la sola forza del loro impegno, intelligenza e creatività, senza il bisogno di alcuna protezione o sussidio o indirizzo e talvolta, nonostante l’opposizione di alcune istituzioni.

Non è difficile comprendere quale delle due impostazioni abbia portato al paese crescita e occupazione, creando valore in modo duraturo e quale invece abbia consentito a pochi di prosperare in modo parassitario ai danni della collettività. Dipinte nelle rive del fiume di denaro pubblico affluito in Alitalia e nel rompicapo ancora irrisolto di Monte Paschi possiamo ammirare le magnifiche sorti e progressive dello Stato imprenditore e della direzione “politica” delle imprese.

Da questo dovrebbe discendere l’ovvia conclusione che l’unica politica industriale sensata per il nostro paese prescinde dalle immaginifiche opere d’ingegneria di recente rispolverate da Renzi così come dalle velleità protezionistiche della destra xenofoba: è sufficiente smetterla di mettere i bastoni tra le ruote alle 10, 100, 1000 Esselunga che ogni giorno affrontano una battaglia impari contro un ambiente ostile e troppo spesso finiscono con l’arrendersi o emigrare.

@massimofamularo

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