Sin da bambina il suo sogno era diventare architetto, “ma dopo la laurea ho scoperto che in Italia senza raccomandazione non sarei andata da nessuna parte”. Così Tiziana Crusco, 44 anni, originaria di Sapri, cittadina da seimila abitanti in provincia di Salerno, ha scelto di partire. Il suo paese d’adozione non è una terra facile. E’ il Kurdistan iracheno, a quattro ore di macchina da Mosul, roccaforte dell’Isis nel nord dell’Iraq, e a volte la guerra è così vicina che bisogna scappare in fretta. “Ho fatto avanti e indietro in più di un’occasione da quando nel 2011 sono andata a vivere a Sulaymāniyya, non distante da Erbil, capoluogo della regione, ma ne vale la pena: lavorare in Kurdistan è un’esperienza bellissima. Per il momento, nonostante la possibile battaglia per la riconquista di Mosul, la città in cui vivo è tranquilla, vediamo cosa succederà”.
In Iraq Tiziana ci è capitata quasi per caso. “Dopo la laurea all’Università Federico II di Napoli ho iniziato a lavorare, ma ho capito subito come andavano le cose qui in Italia. Vengo da un piccolo paesino del sud, e non solo non c’era molto lavoro, ma senza santi in paradiso non si riusciva a fare granché. Per non parlare della pressione fiscale, praticamente insostenibile. E’ stato davvero un periodo esasperante. Poi un amico, che proveniva da un’esperienza di lavoro in Kazakistan, mi disse che si sarebbe spostato in Kurdistan perché lì cercavano architetti. C’era un concorso da fare e ho tentato, in fondo a me è sempre piaciuto viaggiare”. La prova andò bene: Tiziana parlava l’inglese, requisito fondamentale per il nuovo impiego, così nel 2011 le si presentò una scelta: partire e rischiare, oppure rimanere in Italia?
“In Italia la pressione fiscale era insostenibile. Ero esasperata. Poi un amico mi disse che in Kurdistan cercavano architetti. E sono partita”
“All’epoca non sapevo molto del Kurdistan, non conoscevo bene la situazione politica del territorio, ma la curiosità alla fine ha vinto. E ne sono felice”. La regione irachena, prima dell’arrivo dello Stato islamico, a partire dalla seconda metà del 2014 era in via di sviluppo. L’economia era in crescita, e opportunità di lavoro, a Sulaymāniyya, non ne mancavano. “Io lavoro per due aziende, una olandese e una spagnola, e in questi anni ci siamo occupati un po’ di tutto: case, strade, ponti, edifici pubblici. In Kurdistan molte infrastrutture mancano, c’è davvero tanto da fare. Rispetto a noi, quindi, si lavora prestando meno attenzione ai dettagli estetici, perché l’esigenza primaria è sopperire a ciò che manca”. Poi l’arrivo dell’autoproclamato Califfato “ha paralizzato tutto, a Baghdad come a Erbil, e di conseguenza a Sulaymāniyya, perché il Kurdistan dipende molto dalla capitale”. Tiziana, come tanti altri stranieri, era rientrata per ragioni di sicurezza, ma recentemente è riuscita a tornare al suo lavoro.
“Il paese dei curdi”, o Kurdistan, per lei è stata una bella scoperta. “Non solo è splendido da vedere, ma le persone sono davvero accoglienti e molto curiose rispetto alla cultura italiana. Anche se all’inizio mi sono domandata se non avessi fatto una follia”. Atterrata a Erbil, di notte, in un aeroporto semi deserto, casa sembrava troppo lontana. “Poi due ragazzi, i responsabili dell’azienda dove avrei lavorato, mi sono venuti incontro sorridendomi. ‘Welcome to Kurdistan’, mi hanno detto. E mi sono sentita più fiduciosa”.
“In Italia, se ci fosse meritocrazia, forse meno persone sentirebbero il bisogno di partire”
I primi mesi Tiziana li ha trascorsi ospite di una famiglia, poi si è sistemata nell’appartamento al piano superiore, dove vive da sola. “Sono affascinata dalla loro cultura, dal forte legame con la tradizione che i curdi dimostrano. Certo, la religione musulmana ha regole diverse dalle nostre. Qui, a dire il vero, manca la libertà: in quanto donna non posso di sera, e a livello di relazioni interpersonali siamo praticamente fermi all’Italia di 60 anni fa”. E l’amarezza di essere dovuta partire c’è. “Ogni volta che penso all’Italia mi viene una gran tristezza. Abbiamo ottime università, tanti giovani di talento, e li costringiamo a emigrare all’estero, a portare quella ricchezza altrove. È un vero spreco. Se ci fosse meritocrazia forse meno persone sentirebbero il bisogno di partire, ma finché le cose rimarranno come sono, finché il paese non deciderà di investire nei giovani e nel lavoro, continueremo a regalare il nostro sapere ad altri”.