Siamo artefici del nostro futuro, e come barbari mettiamo a fuoco la nostra bellezza, l’unica cosa che potrà contare oltre la nostra misera esistenza. Il rogo doloso di Pantelleria ci squarcia l’anima e ci interroga sulle nostre pochezze. Gente senza scrupoli alla ricerca di facili guadagni momentanei, chissà forse per ideare un villaggio turistico o un centro residenziale esclusivo, sceglie la strada più vile: incendiare il bosco. Circa 600 ettari di macchia mediterranea, bellissima e tenuta con cura, sono stati incendiati da mafiosi che, appiccando il fuoco in più punti ad un orario particolare (sapevano che a quell’ora sarebbe stato difficile l’impegno dei Canadair), hanno inferto alla Sicilia, e all’Italia intera, un colpo mortale. Colpiscono proprio la nostra identità, la nostra unicità: la nostra grande bellezza.

L’incendio  - Una delle foto diffuse dal Comune di Pantelleria  - Ansa

L’incendio – Una delle foto diffuse dal Comune di Pantelleria – Ansa

Chi conosce quell’isola ed ha avuto la fortuna di girarla con la tipica mehari, chi ha avuto modo di immergersi nel Lago di Venere vestendosi di fango, chi ha respirato l’aria millenaria del Mediterraneo almeno per una notte dentro un dammuso, chi ha scalato, attraverso il bosco, quell’isola alla ricerca del fuoco eterno che sgorga dal centro della terra, non può che lanciare una maledizione ai responsabili di questo attacco meschino alla bellezza. Immagino le lacrime del sindaco e di tutte le migliaia di persone che a Pantelleria hanno lasciato frammenti di cuore. Un posto magico, unico e di una bellezza che ti toglie il fiato. Anche quel campione di fondo africano che incontrai un giorno in cima mentre si allenava correndo in salita, mi parlava di Pantelleria come di un luogo dove l’ossigeno era pieno di “senso dell’eterno”, e per questo il suo trainer lo aveva indicato come il posto giusto per prepararsi a qualsiasi maratona. Hanno incendiato la bellezza, così come neanche la lava vulcanica aveva osato fare per centinaia e centinaia di anni.

Gli uomini… piccoli esseri squallidi, rigonfi di invidia e avidità, hanno sfregiato la natura, come sempre più spesso accade. Un medico, conosciuto in un tramonto a caso nell’isola dove aveva deciso di rifugiarsi, parlava di quel bosco che andava attraversato con cura, come di un esempio di crescita naturale e di cura intensiva della macchia mediterranea. Neanche i Turchi, ai quali gli isolani hanno dedicato il nome di una baia bellissima e difficilmente raggiungibile, avevano osato sfidare la bellezza e la magia dell’isola, mettendo un freno alla loro ferocia di conquistatori dell’epoca. Bruciare un bosco resta uno dei più vili e meschini attentati verso l’umanità, ed il segno di un tempo smarrito in cui l’uomo non riesce a distinguere tra l’eterno ed il transitorio.

Ma gli isolani di Pantelleria sono altra cosa. Ancora ho negli occhi quella imbarcazione devastata dal mare, che i pescatori di Pantelleria hanno lasciato incastrata sulla spiaggia, quale monumento al loro intervento in soccorso ai migranti in una giornata memorabile che tutti ricordano sull’isola: quando tutti accorsero a salvare vite in una catena umana tra scogli e onde terribili, rischiando la vita per salvarla, come i marinai degli equipaggi di Melville, come fosse l’unica cosa per cui erano destinati ad esistere. Immagino le loro lacrime che non bastano a spegnere le fiamme. Brucia il Mediterraneo, tra migranti dispersi ammazzati dalla umana e insopprimibile voglia di libertà, dalla cecità di una politica mediocre e con la natura che soccombe violentata dall’uomo.

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