In Italia pullulano gli oppositori dal forte brand, ma scarsi a contenuti politici, nei confronti di una politica forte di contenuti, ma dall’identità finora definita solo dal lato negativo (la rottamazione) e tuttora in corso di sedimentazione dal lato positivo (che progetto di società rappresenti). Ne soffre l’informazione che fatica a definire i character del racconto della realtà e finisce col correre appresso alla spuma di fatti e fatterelli d’occasione, fino a cedere alle peggiori tentazioni, come quella di promuovere editorialmente il libro del figlio del boss.

Un tempo era diverso, non perché gli uomini fossero migliori, ma perché il mondo era differente e, a proposito di character, erano ben definiti i Partiti della Prima Repubblica, formati in decenni di guerra e guerriglia, autori della Costituzione formale e depositari di quella materiale. Allora i talk show non c’erano, e non solo perché la tv è arrivata tardi e perché c’era il censorio monopolio, ma perché la forza dialettica del Paese si sfogava nell’altissima partecipazione al voto (oltre il 90%, il massimo fra i Paesi democratici) e anche perché in quel clima le tribune politiche bastavano e avanzavano a marcare le linee di confine fra gli schieramenti nei quali gli italiani si arruolavano con le loro passioni e paure.

I talk show cominciano invece a crescere negli anni Ottanta (prima Funari, poi Santoro e Lerner, e poi praticamente chiunque) quando tutto ciò che pareva scontato (destra vs sinistra, stato vs mondo, politicante vs politico, eccetera) si comincia a sfrangiare nelle basi sociali (vedi la crisi del sindacalismo confederale), di partito (con la progressiva residualità parassitaria degli attivisti) insieme con la parallela perdita di senso delle parole che tenevano insieme i pensieri e le visioni del mondo di prima (al punto che oggi l’ultimo trafficante di relazioni lo scopriamo anche autore di salve di tweet contro la famosa casta. E lui magari ci vede un suo senso). In sostanza, i talk show si sviluppano, sì, quando c’è più da discutere perché nulla è scontato come prima; ma ben presto, e per la stessa ragione, cominciano a girare su sé stessi perché non c’è chiacchiera che possa approdare là dove la società non è ancora arrivata.

L’industria televisiva finora ha trovato conveniente cavalcare il fenomeno, perché lo tsunami delle chiacchiere riempie a basso costo i palinsesti che furono smisuratamente moltiplicati per garantire gli equilibri del Duopolio. Oggi, quando la crisi di quella tv si è fatta evidente, probabilmente l’industria pubblica dovrebbe fare un passo per rompere la coazione a ripetere, rivedere l’impianto strutturale delle proprie risorse informative, rendendo i propri palinsesti minori di numero, più densi di fatti e pensieri, meno chiacchierini. Certo, è facile a dirsi e quasi impossibile a farsi. Quasi.

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