Quando ero bambino, venivo bullizzato. Ero grasso ed effeminato. Due cicatrici dell’essere che porto ancora sul mio corpo, ma con una piccola differenza rispetto a ieri: i chili in eccesso bene o male li domino, il mio lato femminile lo considero una ricchezza di cui esser fiero. Ma sto divagando. Il fatto è che venivo deriso, emarginato, umiliato pubblicamente e a volte anche picchiato. All’epoca non potevo saperlo, mi sentivo il classico “unico gay del villaggio” e se mi avessero detto che sarei diventato un attivista non avrei nemmeno colto il significato di quella frase. Il futuro per fortuna è cambiato.

Era un mondo fatto di solitudini, il mio – perché poi vai a spiegarlo, negli anni ottanta e novanta in Sicilia, ai tuoi che non avevi amici per “quella cosa lì” – e di violenze. Un bel giorno sentii dalla mia cameretta un coro di ragazzi che urlavano, sillabandolo, “Da-rio-è-fro-cio!” e fu lì che decisi di affacciarmi dal balcone per cacciarli via. Grande fu la mia sorpresa quando vidi che non c’era nessuno. Stavo sviluppando allucinazioni uditive. Se le parole fanno sempre male, poi c’è il rischio che ti perseguitino anche quando non stanno lì accanto a te. È stato anche questo il motivo per cui ho scritto un libro sulla violenza linguistica. Ma non è nemmeno di ciò che voglio parlarvi.

Il bullismo ha dinamiche precise: c’è una vittima prescelta, per varie ragioni. C’è un carnefice (il bullo) che agisce da solo o in gruppo. C’è un pubblico, una vera e propria rappresentazione scenica della violenza. Non è un dispetto consumato in privato. È la dimostrazione sociale di uno squilibrio, di una diseguaglianza, di un essere fuori norma. La location è il luogo in cui dovrebbe svilupparsi la serena vita dell’adolescente: aule, palestre, il muretto sotto casa. Sempre lontano dallo sguardo adulto. Il bullo sa che la morale collettiva non approverebbe: la violenza in sé, non la ragione che la determina. Ed è per questo che a volte i grandi fingono di non vedere. E in virtù di tutto questo, si procede con un protocollo stabilito di comportamenti non edificanti. Nei casi più gravi, il soggetto perseguitato arriva ad uccidersi. Ugualmente grande è il dolore di chi, per liberarsi da tutto questo, sviluppa ciò che viene definita “resilienza”. O per dirla con un proverbio zen: ciò che per il bruco è la fine del mondo, per il resto del mondo è farfalla. Ed è dura mettere le ali e volare. A volte ci si riesce.

Credo che quanto stia succedendo in questi giorni, con la vicenda sulle unioni civili, ricalchi in un certo qual modo questo scenario. La location, le istituzioni, in cui si dovrebbe legiferare per il bene comune è teatro di frasi orripilanti contro le persone LGBT. C’è il gruppo dei persecutori: i politici omofobi. Ci sono adulti che fingono di non vedere, come Renzi prima e Grillo poi che a quei bulletti hanno garantito libertà di coscienza e ampio spazio di margine, per fare il bello e cattivo tempo sul ddl in questione, dai continui rinvii dei dem fino al “voltafaccia” finale dei 5S. Ci sono parole che feriscono: la rappresentazione mediatica di una violenza verbale riversata senza riserve su noi gay e lesbiche, le nostre famiglie e la nostra prole. E anche lì, l’adulto che doveva provvedere, ha fatto finta di nulla. Con i tatticismi dei pentastellati e con il solito copione del Pd: c’è una categoria sociale che chiede uguaglianza e protezione, ma si media con chi in passato quella minoranza, molto probabilmente, la prendeva in giro nelle scuole, in palestra, in oratorio. Non andiamo molto lontani da questa dinamica. Cambiano solo modi, tempi e protagonisti.

La mia storia l’ho raccontata più volte: ho trovato amici e amiche che hanno capito prima di me chi ero davvero e mi hanno teso una mano. Ho avuto la fortuna di crescere con un padre, una madre e una sorella che non sono stati preparati culturalmente ad accogliere in casa un omosessuale, ma che hanno avuto la nobiltà d’animo di andare oltre il pregiudizio, anche a costo di accettare ciò che non riuscivano a capire, perché loro hanno pronunciato davvero la frase “giù le mani da quel bambino”, senza la presunzione di andare in piazza e gridarlo contro qualcuno. Ho avuto valide alleanze. Io sono io. E sono forte. Sicuramente molto arrabbiato, a volte. E, soprattutto, fortunato. Tutte queste persone vorrebbero per me uno stato che riconosce la pienezza della mia umanità. Non un governo che legifera sul mio “essere gay”, ma che estende i diritti a prescindere dal fatto che io lo sia. Le cronache degli ultimi giorni ci dicono tutt’altro.

Mi chiedo cosa penseranno di queste persone, e di tutto il mondo adulto più in generale, quei ragazzi e quelle ragazze che ancora oggi sono al centro di uno scenario in cui si consumano certe violenze, mentre i grandi fingono di non vedere. Cosa diranno di noi i figli e le figlie delle famiglie arcobaleno, quando sapranno che la legge sulle unioni civili si consumerà sulla loro serenità e sulla dignità dei loro genitori. Mi chiedo se gente come Scalfarotto, Concia, Mancuso e i vari gay interni al Pd per nulla rappresentativi della comunità ma che parlano in nome di essa, andranno a dormire con la coscienza a posto dopo aver dato il loro placet contro le stepchild adoption. Mi chiedo quale sia il disagio delle militanza rainbow del M5S. Perché in questa storia sul ddl Cirinnà, sempre più simile alla solita pantomima all’italiana, anche noi stiamo contribuendo a dare un senso politico a quelle violenze nelle scuole, negli spogliatoi, sui muretti sotto casa.

 

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