Cinema

Joy, Jennifer Lawrence ‘self made woman’ in un mondo di squali maschi: nel film di David O.Russell va in scena il sogno americano

La storia è quella di Joy Mangano, colei che nei primi anni novanta inventò il Miracle Mop, lo scopettone di plastica con lunghe spugne in cotone usabile senza doversi bagnare le mani per strizzarlo, e lo vendette sul canale QVC in solitaria vista l’ignoranza rispetto all’oggetto dei conduttori più esperti della rete tv

di Davide Turrini

Se c’è qualcuno, e qualcosa, che David O. Russell sa filmare è lo sguardo, le movenze, i tre quarti del corpo (dal primo piano al piano americano, non oltre), di Jennifer Lawrence. E se c’è un controcampo che gli riesce in subordine altrettanto bene è l’espressione catatonica, sorpresa, stupita di Bradley Cooper che osserva lei, e poi lei lui. Joy, infatti, sgomberato il campo dalle comparse, dai soggetti brulicanti sullo sfondo (Robert De Niro e Isabella Rossellini compresi), è questa linea direttrice che struttura il senso dell’intera opera. La self-made-woman (con fatica titanica) e l’affascinante mogul depositario del segreto del successo delle vendite televisive, l’ordinario che si sposa con lo straordinario, il cosiddetto sogno americano strabordante di citazioni sul cinema (il produttore di Via col Vento David O. Selznick che sposa Jennifer Jones) è la cifra filosofica tra il malinconico e l’ironico che Russell applica al caso di Joy Mangano, colei che nei primi anni novanta inventò il Miracle Mop, lo scopettone di plastica con lunghe spugne in cotone usabile senza doversi bagnare le mani per strizzarlo, e lo vendette sul canale QVC in solitaria vista l’ignoranza rispetto all’oggetto dei conduttori più esperti della rete tv.

La protagonista disegna, taglia, smartella, sgobba, lavora manualmente, sorbisce questo parentado invadente, sinistro e simpatico, sempre con il visino pulito della Lawrence, idealizzato nella sua dolce testardaggine, mai agiografico rispetto alla mitologia dell’uomo, pardon donna, qualunque che dall’anonimato si fa grande imprenditrice, anzi. David O. Russell inventa un espediente scenografico, o forse lo recupera da qualche racconto sugli studi tv dell’epoca, anche se oggi ci sono boss delle tv locali che lo spacciano come invenzione loro, che è quello del palco girevole circolare, magari suddiviso in due, tre o quattro set, sliding door pronto per roteare lentamente e mettere in scena un nuovo capitolo della quotidianità in cui si concretizza, grazie al proprio ingegno e alla propria determinazione, il successo personale ed economico.

Dall’altro lato, l’umanità che non reagisce che non osa che non ci prova mai, la generazione più anzianotta che dalla tv è rimasto infatuato dalla sua ipnotica e vacua finzione, la madre di Joy, anestetizzata dalle serie modello Falcon Crest, che rischia di diventare ascissa ed ordinata esistenziale anche per Joy. David O. Russell può così modellare la sua Giovanna d’Arco, vituperata e lesa nell’intimo, fregata e presa in giro dal prossimo, amata ma tanto sfiduciata dalla pletora di ex mariti, sorelle, genitori e nonne che le gravitano attorno, in un ritratto al femminile che rinuncia alla beatitudine astratta della purezza dell’anima, ma che a quella stessa purezza etica si rifà in chiave più materiale come fuga da un destino passivo e conformista. Un futuro conquistato con i denti e con la foga, da una donna, in un mondo di squali maschi. Nella splendida sequenza in cui Joy, dall’altra parte della barricata, modificata la sua classe socio-economica d’appartenenza, dà l’ok alla fanciulla con marito e neonato venuta a New York fin dal Sud per mostrarle il prototipo della spazzola pulisci vestiti da viaggio (quella rossa e bianca che abbiamo avuto tutti in casa o valigia), ecco che il disegno circolare del film si compie.

A differenza dell’ipertrofico, spaccone e dispersivo racconto di American Hustle, lo script di Russell ritrova la compattezza omogenea de Il lato positivo. La regia è dinamica, esplorativa, prossima ai corpi in scena, con la cinecamera in adorazione mai voyeuristica della Lawrence (bellissima donna di cui non vediamo mai dettagli fisici ma ne intuiamo il fascino proprio come un film anni cinquanta), e in sala montaggio si lavora di forbici per tagliare e ricomporre materiale tra una sequenza e l’altra in modo che il discorso non si perda mai in momenti di vuoto o noia. Infine come non amare questa miscela di brani che accompagnano simbioticamente la protagonista: The sidewinder del trombettista Lee Morgan, l’Elvis di A little less conversation, il tema di Vertigo di Bernard Herrmann, come i brani della serie tv di The good wife. Qui Russell ritrova la dimensione del patchwork senza capo né coda che l’ha caratterizzato fino ad oggi: passato e presente della visione (americana) tra cinema e tv, omaggio sensoriale ma mai citazione, impressione epidermica e mai devozione autoriale. Joy è un film che fila che è un piacere.

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