La battaglia per la conquista dell’egemonia sul sistema politico italiano fra le forze conservatrici imperniate sul Pd e le velleità rinnovatrici impersonate dal Movimento Cinque Stelle nei suoi vari aspetti si sta conducendo a quanto pare senza esclusione di colpi, ma non sempre l’immagine della classe politica ne risulta potenziata o qualificata.

L’ultima trovata in merito pare appartenga indiscutibilmente a tale Carbone, deputato Pd, il quale per attaccare il dirigente del M5S Di Battista ha ben pensato di dargli del… figlio di fascista. Una invero bizzarra teoria della ereditarietà delle credenziali democratiche, ovvero della purezza razziale o genetica della classe politica che avrebbe fatto furore, forse, ma chissà, solo nell’Albania stalinista di Enver Hodja.

Personalmente non credo, e lo scrivo sulla base della mia oramai quasi sessantennale esperienza personale e familiare, che fascismo o antifascismo possano costituire oggetto di trasmissione ereditaria. La mia famiglia, come molte altre famiglie italiane, è stata attraversata nel corso dell’ultimo secolo dalle vicissitudini della politica nazionale e internazionale e ciascuno ha reagito ed agito come meglio riteneva. Il mio nonno materno, peraltro bravissima persona, partecipò giovanissimo alla marcia su Roma, il fratello del mio nonno paterno, peraltro anche lui bravissima persona, partecipò all’impresa fiumana con D’Annunzio dopo aver militato come ardito nelle Forze armate italiane durante la prima guerra mondiale, mio padre cominciò alla guerra arruolato a forza nell’esercito di Salò e la terminò comandando un reparto di artiglieria della Brigata Garibaldi che liberò Savona. Io stesso ho sempre praticato l’antifascismo e non solo a parole, specie nei violenti anni Settanta ove era d’obbligo l’autodifesa contro squadracce e picchiatori. Un’esperienza personale che non rinnego anche se ora, raggiunta, o quasi, l’età della ragione, sono aperto al confronto con chiunque e alla critica delle armi preferisco l’arma della critica, un lusso che, mi rendo conto, non tutti si possono permettere, in questo mondo difficile e spesso brutale.

L’antifascismo, per la mia come per altre generazioni, non ha certo costituito una sorta di pedigree, ma piuttosto una necessità e una scelta naturale e spontanea, alla luce di quanto accadeva nel nostro Paese e nel mondo. Lo si può ben ricordare all’indomani della morte di Licio Gelli, un fascista le cui teorie hanno trovato sostanziale accoglimento in varie delle riforme costituzionali o legislative più recenti. Lo si può ben ricordare ora che mi trovo in Cile, dove un colpo di Stato di matrice fascista, voluto fino in fondo dall’amministrazione statunitense dell’epoca, annientò quarantadue anni fa la democrazia e le organizzazioni di sinistra (una rievocazione di quegli anni sanguinosi è stata fatta di recente nell’aula bunker di Rebibbia da alcuni dei sopravvissuti di quella repressione nel corso del cosiddetto processo Condor). L’antifascismo, insomma, è una cosa seria e guai a degradarlo a base per accuse indegne perfino di un talk show di ultima categoria.

L’antifascismo deve continuare a rappresentare un elemento fondamentale e irrinunciabile della nostra Repubblica e del resto sta iscritto a lettere indelebili nella nostra Costituzione. Inutile però, anzi direi dannoso, invocarlo a sproposito. Ci si aspetterebbe quindi, dalla classe politica in genere, una maggiore attenzione ai contenuti dei dibattiti, senza scadere in accuse personali talmente poco fondate da dover addirittura ricorrere all’analisi del sangue o meglio di comportamenti o dichiarazioni di familiari e antenati. Certo è che l’antifascismo caricaturalmente invocato da Carbone come elemento di natura ereditaria e quindi immutabile, rappresenta un vero e proprio insulto nei confronti di questo concetto fondamentale. Si sarebbe tentati di replicare che si tratta di una roba da fascisti, ma più verosimilmente è solo l’ennesima dimostrazione della drammatica povertà di idee e progetti di una classe politica oramai alla frutta.

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