Lo sguardo “embedded” di un documentarista iraniano a pochi passi dalle mitragliatici dell’Isis. The Black Flag, evento speciale al 56esimo Festival dei Popoli di Firenze appena concluso, è una di quelle rarità cinematografiche che potrebbero far contenti i fan di Call of Duty o de Il Giorno più lungo. Perché nell’ora di film messa insieme dal regista iraniano Majed Neisi ci sono sia l’asetticità e l’atemporalità degli spazi da videogioco di un conflitto armato di tutto punto, sia l’abbraccio e la solidarietà tra commilitoni quasi che la guerra fosse una smargiassata in compagnia governata dall’assoluta buonafede del proprio intervento armato. Eppure a cinquecento metri dall’obiettivo ci sono le bandiere nere del Califfato.

Girato a Jorf al-Sakhar, a 60 chilometri a sud ovest di Baghdad, il film di Neisi è un viaggio nel deserto, tra palme, rancio militare e smartphone a macinare foto e telefonate, fianco a fianco del comandante Seyyed Ahmad, capo di un reggimento di volontari, studenti di teologia o economia iracheni, semplici e attempati padri di famiglia, che hanno abbandonato lavoro e famiglia per combattere l’avanzata di Daesh.

La truppa si fonde e si mescola, tra uniformi mimetiche recuperate un po’ a caso, ma è unita nel credo religioso per il quale combatte anch’essa. Così se i dirimpettai sono i “cattivi” sunniti radicali dell’Isis, di qua dalla macchina da presa di Neisi ci sono i più “accettabili” sciiti iraniani. Le parole di guerra sembrano quasi le stesse. Seyyedi Ahmad e compagnia sono diventati soldati dopo la caduta di Mosul e soprattutto dopo l’emissione di una “fatwa” contro l’avanzata del “maledetto” Isis. E quando, conquistata Jorf al-Sakhar verso la fine del film, viene acciuffata la bandiera nera dei soldati Isis in fuga. Ma non bruciata, pestata o maltrattata. “Perché sopra c’è scritto il nome di Allah”.

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