Non è banale la polemica scaturita dalla posizione di Marco Parma, il preside della scuola di Rozzano che gran parte della stampa nazionale ha riportato aver proibito i canti tradizionali del Natale nella scuola pubblica da lui diretta, trasformando la consueta “Festa di Natale” in una “Festa d’Inverno” di fine gennaio. In realtà i fatti paiono essere andati diversamente: “Non esistono iniziative cancellate o rinviate” – ha dichiarato il preside in una circolare sul sito della scuola – “L’unico diniego che ho opposto riguarda la richiesta di due mamme che avrebbero voluto insegnare canti religiosi ai bambini cristiani: cosa che continuo a considerare inopportuna.” Da questa notizia alquanto distorta sono tuttavia sorte discussioni culturali interessanti, anche se – va sempre ricordato – i problemi della scuola italiana non sono relativi alla presenza o meno di crocifissi nelle aule o di quali canti di Natale si facciano cantare agli studenti, bensì alla presenza di lavagne elettroniche, computer portatili e collegamenti internet wi-fi, meglio se da fibra ottica, poi termosifoni funzionanti e infissi che possibilmente non siano stati montati durante l’età giolittiana.

Tornando però alla diatriba culturale, quando dico che questa polemica ha portato alla luce discussioni interessanti non mi riferisco alle scontate polemiche dei fondamentalisti cattolici nostalgici di Pio IX e del suo spassoso Sillabo, quanto le posizioni di alcuni intellettuali laici e di sinistra – uno per tutti Michele Serra – che in epoche in cui tutto è liquido e perfino a spruzzo, da decenni si confermano come punto di riferimento anche per chi scrive questo pezzo.

Scrive Serra nella sua consueta Amaca: “Quando in una scuola pubblica si sceglie di non fare il presepe o di rinunciare ai canti di Natale per non urtare la suscettibilità dei non cristiani […] si fa torto all’idea stessa della convivenza fra culture; in un colpo solo, si tradiscono usanze profondamente radicate anche tra gli italiani laici e si abbandona l’idea stessa di un futuro, se non di tolleranza, di reciproca sopportazione.” Al netto delle imprecisioni di cronaca, il punto è: 1) che le usanze cambiano con i tempi; e 2) che la convivenza comporta il rispetto di tutti gli individui che formano una comunità, presupposta come laica e non teocratica.

Fra gli individui con cui noi vogliamo convivere ci sono anche gli agnostici, gli atei, i razionalisti, che magari sono italiani da nove generazioni con tanto di trisnonno mazziniano o garibaldino e non hanno nulla a che vedere con la recente globalizzazione eppure non vedono in un crocifisso un simbolo identitario nazionale, anzi. Poi nelle nostre aule statali di oggi ci sono anche cittadini italiani non cristiani, e in misura sempre maggiore.

Presidio all'Istituto Garofani di Rozzano con Matteo Salvini e Mariastella Gelmini

Al di là del chiasso strumentale su cui la Lega Nord (sì, quella del Dio Po, ora in una fase neo-cattolica che lèvatevi) e altri estremisti di destra si sono lanciati come cani sull’osso, alcuni  progressisti hanno sostenuto: occorre rinunciare al criterio di laicità in favore di un “avanti c’è posto” aperto a tutte le tradizioni religiose, anche nei luoghi pubblici. Detta così, potrebbe sembrare una bella idea, molto ecumenica e ye-ye. Eppure, se andiamo per questa china, vorrei ricordare che gli italiani da alcuni anni non si dividono più solo fra cattolici e non credenti, ma fra cattolici, musulmani, ebrei, seguaci di altre religioni e non credenti. Dovremo dunque riconoscere il giorno di riposo settimanale a seconda della religione di ciascuno, dando il venerdì libero ai musulmani, il sabato agli ebrei, la domenica ai cattolici? Non pare una strada percorribile.

E’ appunto questo il dato di realtà che sfugge tanto ai Salvini quanto ai più accorti Michele Serra: la realtà delle scuole pubbliche italiane del 2015 è molto meno omogenea e univoca di quanto lo fosse ai tempi d’oro in cui Salvini e Serra ne frequentavano i banchi. La maggioranza dei miei italianissimi studenti di liceo, per esempio, si dichiara agnostica o atea, e trovare uno che vada a messa non dico tutte le domeniche, ma anche solo due volte l’anno è un’impresa. Oh, io insegno in due placide realtà di provincia del Centro Italia, non nel quartiere a luci rosse di Amsterdam. È allora probabile che la realtà che ho sotto gli occhi tutte le mattine come insegnante sia simile a quella di molte altre scuole italiane. Se questo è vero, va detto che nelle nostre aule gli studenti che sono forse più attenti al credo religioso tendono proprio a essere i non-cattolici, a cominciare dagli ebrei e dai musulmani, mentre il numero degli studenti che si definisce agnostico o ateo è in grande crescita da nord a sud.

A fronte di questo tipo di società scolastica italiana più multiculturale, ma anche più secolarizzata e post-moderna, converrete che per la scelta delle canzoni del concerto di fine quadrimestre (non lo potremmo chiamare semplicemente così, come si fa in Canada?) esistono tante soluzioni laiche. Se non ci si vuol piegare alle strofe internazionali tipo Jingle Bells, la tradizione lirica italiana è ricca di opere a tutti i livelli, da Va’ pensiero di Verdi, al nazional-popolare di Modugno, alla tradizione folk popolare regionale. È proprio necessario far cantare a tutti Tu scendi dalle stelle, solo perché si è fatto così fra il 1950 e il 1990, ai tempi dello Scudocrociato?

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