Adesso non si potrà più dire che “non tutte le ciambelle riescono col buco”. Nell’evo degli angoli cottura urlati ed esaltati, l’aggiornamento del file “metafore culinarie” urge l’inserimento di locuzioni tipo “non c’è stella Michelin senza pepe rosa leggermente tritato”, “non c’è armonia in cucina se lo chef non usa il suo coltello”, e via così. E Burnt, per la regia di John Wells, non fa altro che confermare l’assunto narcisistico del nuovo (dis)ordine bipolare dietro ai fornelli.

Altro che classicità vs. nouvelle cuisine, con l’Adam Jones interpretato da Bradley Cooper siamo di fronte ad una mera spettacolarizzazione del narciso esibizionista che mescia, aggiunge, toglie, tagliuzza, spolvera – ah! come spolvera bene i bordini del piatto Cooper/Jones… – cibarie assortite con la nonchalance tipica dell’anglosassone che nello strafogarsi di kebab nel negozietto all’angolo pensa di scoprire la spezia che gli farà ottenere la terza stella (Michelin, appunto). Se vedendo Burnt si riesce a scansare non tanto l’ego attoriale (di cui Cooper pare sprovvisto, dopo ci ritorniamo), quanto la mostruosa individualità del personaggio protagonista, si possono intravedere persino alcuni piatti in preparazione, un paio di attori recitare (Daniel Bruhl è bravo da quel dì, soprattutto nelle commedie) e un film sostanzialmente non scritto (se non per qualche breve dialogo) bensì impostato su stereotipizzazione di ruoli, psicologie e sfondi.

Uno chef dedito agli eccessi (droga, alcol e sesso), che ha come espiato la pena di un’avventura parigina in cucina finita male aprendo ostriche in bettole della Louisiana, torna a Londra per rilanciare la sua carriera, arruolare fedelissimi ex e nuovi collaboratori per una crociata della quaglia ben impanata, ed ottenere l’agognato e celebre riconoscimento internazionale. Solo che Burnt si ferma qui. O ancora meglio: ha già sviluppato dopo una trentina di minuti tutto il potenziale di sviluppo dello script. Il sottotesto del passato turbolento fluttua e rimane floscio come una sogliola scotta, le situazioni chiave si ripetono come in una ruotina che gira continuamente su se stessa (l’incontro con la psicologa, l’arrivo dei malviventi che vogliono il pizzo, l’urlo ‘yes chef’ della ciurma da Full Metal Jacket), ma soprattutto arriva l’internazionalizzazione dei cucinieri con l’italiano riccioletto con bandana (Scamarcio, tre battute e quattro primi piani), l’apparente bulletto di periferia londinese, il francese dalla pelle scura (Omar Sy, ritenta sarai più fortunato).

Tutti perennemente sottoposti ad un tran tran esistenziale e militaresco tra le pentole che avrà sì tutti i presupposti di realismo garantiti dalla consulenza di Gordon Ramsey, ma che non fanno altro che rendere anonimo condimento e salsa al cuore della rappresentazione: il cibo. Senza dimenticare che il rimescolamento degli ingredienti prevede un ritmo frenetico da urgenza del piatto da consegnare in sala prima che si raffreddi, realizzato con un montaggio che forse Wells prevedeva simile ad uno dei concitati (ed ottimi) episodi della serie ER di cui fu co-produttore fin dagli albori. Infine ecco l’elemento insipido e sciapo: Bradley Cooper. Fisico ce n’è, e ce n’è soprattutto da mostrare in una scena da pronto soccorso con Sienna Miller. Poi la nostra catatonica star dall’occhio cerulo, naso e mento puntuti da pinocchietto, propone una gamma espressiva corrispondente alle due unità: con o senza grembiule da chef. Conto portato al tavolo: salatino. Ratatouille a confronto è una sinfonia wagneriana.

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