copertina storia di un jihadista

Il titolo che ho dato a questo mio post è anche il titolo del mio nuovo libro uscito qualche giorno prima della strage di Parigi. Ho deciso, quindi, di prendere in prestito il titolo del mio lavoro per ripercorrere alcune biografie dei terroristi e, a partire da queste, cercare di fare un ragionamento che spesso irrita molti di quelli che vorrebbero una guerra totale contro l’Isis come se bastasse – magari bastasse – a risolvere il problema del terrorismo di matrice islamica. E’ irrazionale pensare di evacuare un problema così vasto e importante facendo ricorso ai bombardamenti, tra l’altro in un quadro politico-strategico in cui le potenze non sembrano avere un piano condiviso. Prevale, infatti, ancora la logica dell’interesse nazionale e sembra essersi fatto strada il convincimento che prima di attaccare con le truppe e invadere un territorio, bisogna sapere cosa avverrà dopo.

L’Afghanistan, l’Iraq e la Libia, probabilmente hanno fatto riflettere e hanno consigliato una maggiore cautela. Questo non ha impedito che la strage di Parigi fosse raccontata come un fatto di politica internazionale. Un attacco dell’Isis contro uno Stato che è in prima linea nella lotta del terrorismo di matrice islamica, mentre tutti sappiamo che le motivazioni di questi atti sono più profonde e mettono a nudo alcuni nodi storici legati al passato coloniale nelle diverse articolazioni che esse hanno e che non sono mai stati risolti. La strage di Parigi, a mio parere, non è un fatto che riguarda solo una contrapposizione tra la Francia e l’Isis, uno stato straniero che ha deciso di portare la guerra in territorio francese. Né tantomeno uno scontro di civiltà o uno scontro religioso. Questi riferimenti possono avere buon gioco nella comunicazione e nella propaganda che il Califfato fa per attirare adepti. Resta però il fatto che gli autori delle azioni terroristiche sono giovani europei e nel caso specifico francesi e belgi.

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Ciò chiama in causa tutti noi e le politiche che gli Stati, in questo caso la Francia, hanno praticato per l’integrazione culturale e sociale delle popolazioni delle periferie delle grandi città abitate da una popolazione in massima parte di origine magrebina e africana, tutti provenienti dagli ex possedimenti coloniali. Non è un segreto che le politiche della destra e della sinistra francese si siano col tempo avvicinate anche nell’affrontare la questione delle periferie. In tutte le occasioni sono prevalse le logiche della repressione piuttosto che quelle dell’inclusione. Non è un caso che dopo l’intervento della polizia a Saint Denis, gli abitanti intervistati dalle televisioni hanno ribadito che per loro il vero nemico era lo Stato, la polizia e non i terroristi. Per quanto queste posizioni possano farci orrore, non possiamo far finta che non esistano. E’ un dato da tenere presente per tentare di capire meglio che la questione del terrorismo di matrice islamica è innanzitutto un problema interno alle nostre società e in buona parte nasce dalla mancanza di risposte degli Stati al malessere giovanile.

Questo vuoto di prospettiva, questa incertezza del futuro che genera angoscia e rabbia determina a sua volta un vuoto che spesso viene riempito da messaggi religiosi violenti che danno una ragione per la quale vivere e impegnarsi. Così inizia un percorso di radicalizzazione che può trovare nella moschea o nel circolo culturale ad essa connessa il giusto predicatore per essere indottrinati ad una pratica dell’odio mentre si coltiva la speranza del grande gesto sacrificale e della conquista del paradiso. A Molenbeek dove l’apertura di una associazione islamica o di altro tipo è molto facile, dove c’è un numero ragguardevole di moschee, il reclutamento jihadista sperimenta da almeno quindici anni altri percorsi aldilà delle moschee controllate dalla polizia. Per esempio, le associazioni culturali o le palestre sportive dove i giovani coltivano la loro rabbia e l’odio verso i Paesi dei quali possiedono la nazionalità, per non parlare poi della importanza che assume per il proselitismo jihadista il potente strumento dei social media. Ma l’apprendimento non è una linea retta e la radicalizzazione passa per fasi contraddittorie.

Hasna Aït Boulahcen, la cugina di Abdelhamid Abaaoud, viveva tra un bicchiere di vodka e il niqab, in un miscuglio di desideri registrati sul suo telefonino o postati su Facebook, di voler diventare una cantante rap o una jihadista. Anche suo cugino, probabilmente l’organizzatore degli attentati, un po’ spaccone, un po’ dal carattere irriverente, postava sul suo telefonino una donna nuda su una moto accanto ad una foto alla guida di un camion che trasportava i corpi di uomini assassinati perché miscredenti. E’ contro questo ambiente malsano che bisogna scatenare innanzitutto una guerra culturale, con politiche inclusive e con processi di integrazione che non lascino adito a rancori e a rivendicazioni che spesso si manifestano facendo ricorso ad un vocabolario preso a prestito dalla religione. Occorre sbarrare la strada ai falsi profeti a quelli che da qualsiasi pulpito seminano odio e riflettere sulle misure necessarie per un processo di integrazione che sia rispettoso delle diversità. Anche questa è guerra, forse di lunga durata a cui uno Stato non può abdicare pensando di risolvere il malessere con politiche repressive.

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