Le strade del terrorismo islamico in Europa portano in Belgio. Dal 7 gennaio, giorno dell’attacco a Charlie Hebdo, a oggi sono emersi di continuo collegamenti tra attentatori o aspiranti jihadisti e il territorio di Bruxelles. A Molenbeek, quartiere della “capitale d’Europa”, aveva soggiornato a lungo uno dei due fratelli Kouachi, autori della strage nel giornale satirico, e sono stati compiuti arresti in seguito agli attentati del 13 novembre. Collegamenti con il territorio belga li avevano anche Amedy Coulibaly, autore della carneficina al supermercato kosher di Parigi. E nella cittadina di Verviers, vicino a Liegi, gli inquirenti pensano abbia abitato la mente degli ultimi attentati di Parigi, Abdelhamid Abaaoud. Nel Paese sono poi stati condotti i blitz antiterrorismo nel 2014 e a gennaio 2015, oltre agli arresti nell’inchiesta su “Sharia4Belgium”. Ancora: Bruxelles ha assistito terrorizzata all’attentato al museo ebraico.

“Ma sbaglia chi crede che questa situazione sia frutto di una scelta che arriva dall’alto – spiega Alessandro Orsini, direttore del Centro per lo Studio del Terrorismo dell’Università di “Tor Vergata” e Ricercatore al Massachusetts Institute of Technology di Boston – non è un fenomeno che si verifica per la scelta strategica di una centrale operativa che guida il processo dall’alto e che decide dove è più conveniente installare le cellule jihadiste. La radicalizzazione è un processo che, in Belgio come altrove, avviene per strada, a scuola, tra amici e vicini di casa”.

Una radicalizzazione “porta a porta”
La popolazione di fede musulmana, in Belgio, rappresenta una percentuale alta: il 6% degli 11,2 milioni di abitanti. Se si ragione in numeri assoluti, però, si parla di meno di 700 mila persone, niente in confronto ai milioni presenti in Paesi come Francia o Germania. Qui, però, si è assistito a uno sviluppo del radicalismo che ha portato il Paese, negli ultimi anni, ad essere considerato un hub del jihadsmo in Europa. Questo perché, come spiega Orsini, il proselitismo viene fatto attraverso contatto diretto tra conoscenti e una concentrazione di soggetti radicalizzati nello stesso contesto fa crescere il fenomeno in maniera esponenziale. “Nel periodo 2003-2005 – continua l’analista – ai tempi della guerra degli Stati Uniti in Iraq molti foreign figther che partivano dal Belgio verso quel Paese non avevano i soldi per pagarsi il biglietto dell’aereo e hanno dovuto procurarseli tramite collette, raccoglierli bussando alla porta di amici e di simpatizzanti”.

Ѐ così che in Belgio si sono costruiti i rapporti che hanno reso alcune aree del Paese un vero e proprio terreno fertile per le organizzazioni terroristiche. Questo processo è avvenuto anche in altri Paesi, come nelle aree periferiche o nelle banlieue francesi, ma in Belgio, anche grazie a diverse politiche di prevenzione e repressione del fenomeno, ha attecchito maggiormente: “Una volta che un gruppo di islamisti fanatici si installa in un Paese in cui esiste terreno fertile – continua Orsini – il reclutamento continua senza sosta e, se le condizioni continuano a essere favorevoli, il numero dei proseliti cresce, a meno che la polizia non intervenga in maniera capillare quando il fenomeno muove i primi passi”.

Jihadisti, “quando hanno la cittadinanza è più difficile combatterli”
Un paragone che spiega bene la differenza tra il Belgio e altri Paesi europei è proprio quello con l’Italia. “Il nostro, all’inizio degli anni ’90, era uno dei paesi in cui i militanti di Al Qaeda cercavano rifugio – spiega il ricercatore del Mit – non per colpire noi, ma per creare basi logistiche. Poi la polizia è intervenuta in maniera capillare e la situazione è cambiata”. Ma adesso per il Belgio la situazione è più complessa, spiega ancora Orsini: “E’ difficile rimuovere questo tipo di gruppi – dice – è più facile quando si tratta di persone che, non avendo la cittadinanza, possono essere espulse. Questa, per inciso, è la strategia più utilizzata dall’intelligence italiana. È molto più difficile quando si tratta di immigrati di seconda o terza generazione che hanno acquisito la cittadinanza, come i fratelli Kouachi e come tanti jihadisti in Belgio”. In questi casi, infatti, l’espulsione non è una soluzione applicabile e, prima o poi, questi soggetti usciranno dal carcere, dove magari si sono ulteriormente radicalizzati o hanno avvicinato nuove leve, e proveranno a continuare la propria attività di reclutamento e pianificazione di attentati.

Perché Molenbeek e Verviers? “Perché la radicalizzazione avviene dal basso”
Quello che colpisce, oltre ai riferimenti al Belgio, è che al centro di questo fenomeno sono spesso precisi quartieri o cittadine come Molenbeek e Verviers. Delle enclave, delle sacche all’interno delle quali si sviluppano la maggior parte dei movimenti estremisti belgi e che, nonostante i blitz della polizia, non si riesce a bonificare.“Le ricerche più accreditate – conclude Orsini – dicono che queste organizzazioni crescono attraverso rapporti molto informali tra conoscenti che introducono altri conoscenti. Non dobbiamo immaginare grandi scuole di indottrinamento nascoste nelle moschee con tanto di cattedra e lavagna. Questa è una concezione islamofobica che non ha riscontri empirici e che infuoca quanto un sermone di Bin Laden. In questi quartieri, i ragazzi si radicalizzano durante le passeggiate con gli amici, nei banchi di scuola, mentre giocano, davanti alla televisione e, raramente, in carcere. Nella gran parte dei casi, è un processo che inizia al di fuori delle istituzioni politiche e religiose e molti di questi ragazzi vengono espulsi dalle moschee”.

Twitter: @GianniRosini

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