Obama e gli Usa costretti a un pragmatismo di facciata
L’ambiguità di questa situazione è sottolineata dalla tv statale, secondo la quale i raid russi avrebbero avuto per obiettivo “due provincie” e che i bersagli erano “posizioni” dell’Is. Senza specificare quali. Perplessità che il ministro della Difesa francese Jean-Yves Le Drian trasforma in pesanti dubbi: “I russi e i siriani hanno fatto parecchie incursioni, questo è ormai pubblico, curiosamente però non hanno colpito lo Stato islamico…”. Al punto che il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius è stato costretto a smussare le affermazioni del collega, ammettendo che sì, c’erano “informazioni secondo le quali le missioni russe non hanno colpito l’Is”, che tuttavia “bisognerà verificare quali erano gli obiettivi” prima di dire che i russi hanno raccontato balle. Ancor più cauti gli americani. Il Dipartimento di Stato si accontenta di dire che i raid russi non modificheranno in alcun modo i piani delle missioni aeree condotte dagli Stati Uniti e dalla coalizione internazionale contro l’Is in Siria.

Insomma, per il momento prevale il pragmatismo. Terreno in cui Putin è cinicamente il più attrezzato. D’altra parte, le alchimie politiche che convergono sulla crisi siriana e, di riflesso, su quella libica, sono assai complicate. Con una certezza: che i russi non intendono sgombrare dalla Siria. Lo spiega Bassma Kodmani, ex portavoce della Coalizione nazionale siriana, direttrice del centro Arab Reform Initiative: “Vi è coerenza nella posizione russa. Mosca vuole rafforzare Assad e ridare credibilità all’esercito siriano, epicentro del suo potere in Siria, nell’ottica di un negoziato in cui i termini sarebbero a suo favore”. Ossia, il mantenimento dei privilegi attuali: la base navale di Tarsus e quella aerea di Latakia. “I russi hanno capito benissimo che Assad tra qualche anno non sarà più al suo posto” osserva il politologo Salam Kawakibi, sempre dell’Arab Reform Initiative, “non è lui che cercano di rafforzare, ma la loro posizione in Siria”.

Il Cremlino dà le carte del gioco. E la Merkel è interessata
Mastro Putin ha gioco facile, di fronte si ritrova interlocutori privi di una visione unitaria che vada al di là della lotta contro l’Is. Che è la priorità di Washington, ma accompagnata dalla condizione di combattere lo Stato islamico senza il macellaio Bashar al Assad, responsabile dei massacri che hanno decimato la popolazione del suo Paese e hanno costretto all’esodo oltre sei milioni di persone. Obama ne fa – giustamente – una questione morale. Lo stesso Segretario di Stato John Kerry ha invitato Putin a smettere di sostenere Assad che “aiuta gli estremisti”. Putin sostiene che non se ne può fare a meno, non c’è tempo per altre soluzioni, presenta Assad come l’unico bastione contro l’Is e così facendo paralizza ogni discussione su un’eventuale (indispensabile) transizione a Damasco. Kerry è dell’opinione che l’intervento russo “rischia di esasperare ed estendere il conflitto”, lo ha ribadito al ministro degli esteri russo Sergej Lavrov il 28 settembre. Lavrov non ha fatto una piega. Il Cremlino ha in mano carte forti, capaci di sedurre più gli europei che gli americani: barattare una posizione più morbida sul caso Ucraina, in cambio dell’aumento d’influenza in Siria. La Merkel, tra i leader Ue, è parsa la più interessata.

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