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La radiazione di due sportivi fa notizia. Dopo il calcio, il tennis. E il coro dei “Che vergogna” si alza impetuoso verso il cielo maledicendo il mondo delle scommesse e chi ha infranto ogni regola per trarre profitto personale. Un processo a porte chiuse, una decisione draconiana, e poi – come nell’arena – pollice verso e acclamazione per il verdetto.

Ma qualcuno sa davvero cosa è successo a Daniele Bracciali e a Potito Starace? In chiusura di pagina 41 del drastico provvedimento che li riguarda si legge testualmente “In particolare nel giudizio disciplinare muta la regola probatoria; mentre nel processo penale vige la regola della prova ‘oltre il ragionevole dubbio’ nel processo disciplinare sportivo vige la regola della preponderanza del ragionevole dubbio o del ‘più probabile che non'”.

Quel dubbio – la cui ragionevolezza potrebbe essere oggetto di discussione – ha fatto condannare due tennisti alla radiazione e al pagamento di una significativa pena pecuniaria. Avvezzo ad occuparmi di “prove” e non di “dubbi”, ero il consulente tecnico di parte nel collegio di difesa di Daniele Bracciali. Ho esaminato con meticolosa attenzione i presunti elementi su cui poggiavano le accuse, dimostrando con serenità lacune procedurali a mio umile avviso significative. Gli avvocati Filippo Cocco e Alberto Amadio hanno chiesto che venissi sentito dal Tribunale federale per illustrare l’esito della mia analisi e per evidenziare – almeno sotto il profilo tecnico – l’estraneità di Bracciali rispetto a chat, account e altri ingredienti informatici con cui era stata cucinata l’accusa. La mia testimonianza è stata ritenuta superflua e per un attimo ho creduto che i giudici avessero letto e capito la mia relazione.

Il 7 luglio 2015 la Procura della Repubblica di Cremona ha depositato gli atti e comunicato la chiusura delle indagini sulle scommesse nel calcio e del corrispondente filone tennistico. Qualcuno (la Federazione Italiana Tennis per prima), forse poco pratico di procedura penale, titola «Pm chiude indagini e chiede rinvio a giudizio per Bracciali e Starace» anticipando incredibilmente qualcosa che non ha avuto (e forse non avrà) luogo. Infatti in quelle carte si legge, tra l’altro, che l’account Skype “Braccio2”, su cui si imperniano le accuse, è legato ad una utenza cellulare che non è di Bracciali. Quel telefonino è riconducibile – secondo la questura di Cremona – alla fidanzata di un certo Enrico Sganzerla (gentleman al centro di episodi di cronaca non proprio edificanti e sodale di Manlio Bruni presunto regista delle irregolarità delle scommesse sportive) che potrebbe, a sua volta, averla avuta a disposizione.

Le imbarazzanti chiacchierate telematiche correlate a “Braccio2” sarebbero il frutto di una impersonificazione diabolica cominciata con la scelta di un nickname simile a quel “Braccio78” adoperato dal tennista. Il documento – estratto dal fascicolo delle indagini penali – viene presentato al Tribunale di Federtennis. Inutilmente. L’ennesima prova di estraneità non basta. Resta il dubbio. Le prove non contano. Come in Parlamento, dove però – valesse mai la regola del dubbio – i banchi sarebbero pressoché disabitati. La storia non finisce qui. Mentre viene proposto appello alla sentenza, è bene scoprire il backstage della clamorosa decisione.

Chi sbaglia è giusto che paghi. E chi in questa vicenda ha sbagliato pagherà. Senza dubbio.

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