Di Carlo A. Facile*

Alcuni giorni fa si è svolto a Milano l’annuale convegno nazionale dell’associazione degli avvocati giuslavoristi italiani, un consesso di addetti ai lavori che hanno discusso di teoria, di pratica e (perché no) di loro stessi.

È stata l’occasione per una ricognizione organica sul Jobs Act e sulle sue ripercussioni non solo in tema di licenziamento, ma anche sui controlli a distanza dei lavoratori e la loro privacy, sul mutamento delle mansioni e sulle diverse forme contrattuali; il convegno è stato efficace e non è mancata la partecipazione conclusiva di professionisti stranieri provenienti da Germania, Stati Uniti, Grecia, Danimarca, Regno Unito, Spagna, Francia e Lussemburgo; i colleghi stranieri hanno riferito, in sintesi, del contesto normativo in cui operano e di come si caratterizza il contenzioso del lavoro nei rispettivi Paesi di origine.

Ascoltando gli avvocati venuti da fuori, la notizia è stata: in Germania e in Grecia i lavoratori vantano ancora la reintegrazione anche per i licenziamenti per motivi economici e secondo l’avvocato tedesco, cito a memoria, “la Signora Merkel non ha intenzione di cambiare la legge”. Negli Stati in cui la reintegrazione è limitata ai casi di discriminazione, proprio tale argomento viene sempre più preso in considerazione per valutare la legittimità dei licenziamenti, con il conseguente incremento del contenzioso.

Tornando ai casi tedesco e greco come è possibile, ci si chiederà, che in due Paesi tanto diversi tra di loro (uno considerato solido ed efficiente, l’altro che parrebbe sull’orlo del baratro) e diversi dal nostro, la tutela reintegratoria sia rimasta intatta? Forse perché in effetti, come già è stato notato innumerevoli volte, non è la reintegrazione, in quanto sanzione per un licenziamento accertato illegittimo, a pregiudicare le dinamiche del mercato del lavoro incidendo sulla predisposizione degli imprenditori ad assumere, ma altri fattori noti quali il costo del lavoro, la burocrazia, il deficit di investimenti privati e pubblici e la concorrenza dei settori produttivi esteri spesso sostanzialmente fondata su dumping sociale e ambientale.

Sta di fatto che, proprio perché “sanzione” eventuale e non già “costo” di per sé connaturato alla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, la reintegrazione così come congeniata nell’originario art. 18 dello Statuto dei Lavoratori e, nonostante tutto, anche quella depotenziata perché limitata a ipotesi più specifiche, prevista a partire dal 2012 con la riforma Fornero, rappresentava un adeguato strumento del diritto per prevenire eventuali ritorsioni o abusi anche a seguito di legittime contestazioni o rivendicazioni in pendenza di rapporto.

Ma tant’è, il legislatore delegato pare aver sposato la teoria del firing cost, visto quanto affermato nella relazione tecnica che ha accompagnato a suo tempo la presentazione dello schema di decreto relativo al contratto a tutele crescenti, in cui si legge della perseguita esigenza di limitare – appunto – il costo per le aziende in caso di licenziamento.

Le nuove regole valgono solo per gli assunti dal 7 marzo 2015, ma con che spirito i lavoratori ancora assistiti dall’art. 18 affronteranno il rischio di veder risolto, per un motivo o per l’altro, il rapporto di lavoro per doversi poi ricollocare con un contratto a tutele crescenti?

Pertanto, considerata la ridotta portata deterrente delle sanzioni per i licenziamenti illegittimi, è facile prevedere che i dipendenti opporranno ben poca resistenza rispetto alle maggiori possibilità per il datore di lavoro di variare (anche strumentalmente) le mansioni e il livello contrattuale dei propri dipendenti e la preconizzata modificazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, che permetterà più ampi margini di controllo dei lavoratori.

E così, constatano gli stessi addetti ai lavori, dopo un lungo periodo durante il quale gli interventi legislativi hanno teso a tutelare il cosiddetto contraente debole, vale a dire il lavoratore, ora con il Jobs Act si torna ad avere un pesante sbilanciamento di poteri e possibilità in favore dei datori di lavoro.

Tali interventi, dunque, stanno scardinando principi normativi e giurisprudenziali che si sono consolidati negli anni e che – per certi versi – si ritenevano ormai intangibili.

Infatti, e per alcuni può essere una considerazione banale, il contratto di lavoro sia esso a tempo determinato o indeterminato, autonomo o subordinato, è il contratto che tutti prima o poi abbiamo bisogno di stipulare perché tutti, prima o poi, abbiamo bisogno di quel lavoro che addirittura è stato individuato come l’elemento fondante della nostra Repubblica e del nostro coesistere sociale.

C’è da domandarsi cosa rimanga del diritto del lavoro, che gli avvocati specializzati paventano come in via di estinzione, e che va inteso come l’insieme delle disposizioni che incidono sì sulla libertà contrattuale delle parti, ma al fine di non farne prevaricare una sull’altra nel contemperamento delle contrapposte esigenze.

Ebbene, il diritto del lavoro non è morto; innanzi tutto perché così come sta cambiando, potrà ancora cambiare anche sulla spinta delle istanze dei diretti interessati, come è avvenuto finora.

Le modificate tutele sostanziali potranno, e dovranno, essere ancora oggetto di interpretazione alla luce degli stessi principi generali, derivanti dalla Costituzione e che non sono oggetto di abrogazione da parte del Jobs Act, che da un lato permettono l’esercizio della libera iniziativa economica e imprenditoriale, e dall’altro devono permettere la tutela della personalità e della dignità dei lavoratori.

* Avvocato giuslavorista, mi sono formato ed esercito la professione a Milano. Mi sono dedicato al diritto del lavoro per scelta e ho avuto modo di affrontarlo sia dal punta di vista dei lavoratori che da quello dei datori di lavoro, convinto della sua rilevanza sociale e della diretta ripercussione dei suoi effetti sulla vita e sulle aspettative delle persone.

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