E’ sera nella comunità indigena di Fort Chipewyan, in Alberta, Canada. Il sole tramonta lentamente sul fiume Atabasca. In parte è ancora ghiacciato e coperto di neve. Sui banchi del fiume c’è la foresta e la vita che ospita. In questo piccolo villaggio di 1300 persone l’unico ristorante offre carne di caribou, spezzatino con carote e spezie o merluzzo con erbe locali.

Tutto perfetto, eh? E invece no. Tutto quello che si mangia qui non è frutto della caccia, pesca e dell’agricoltura locale come lo è stato per secoli e secoli in una comunità di “First Nations”. E’ tutto importato.

Perché? Perché è tutto inquinato. Animali, pesci e piante. La gente lo sa da tanto tempo, in modo aneddotico, perché i tassi di tumore sono in aumento, specie per quello del dotto biliare o il cancro cervicale, prima d’ora considerati rari. Secondo chi vive a Fort Chip i tassi di tumore sono aumentati vertigionasamente negli scorsi 30 anni. Gli anziani non ricordano cosi tanti morti di cancro in tutte le loro vite.

Negli scorsi mesi sono arrivate anche le prove ufficiali.

L’Università del Manitoba, ha infatti esaminato possibili connessioni fra lo sfruttamento delle Tar Sands del Canada a circa 200 chilometri a nord e il cibo che non possono più mangiare. Ci sono voluti tre anni per completare gli studi e dozzine di interviste ai residenti della zona.

I risultati? Ci sono tassi superiori al normale di idrocarburi policiclici aromatici, arsenio, mercurio, cadmio e selenio nei tessuti dei reni e del fegato di alci, papere, pesci, castori e muskrats, emessi durante l’estrazione e la lavorazione del bitume dalle Tar Sands. Il rapporto è stato peer-reviewed, e i fondi per realizzare gli studi sono arrivati da enti governativi indipendenti non collegati all’industria del petrolio.

Su 94 persone intervistate 20 sono stati colpiti da una qualche forma di cancro. Si conclude che le estrazioni petrolifere qui “compromettono l’integrità dell’ambiente e della vita animale, che a loro volta portano a conseguenze negative per la salute dell’uomo ed il suo benessere”.

Il governo canadese, che incassa miliardi e miliardi di dollari con le Tar Sands, ha lungamente contestato che la vita selvatica potesse essere contaminata. Dicono che i tumori di Fort Chip sono naturali e che potrebbe anche essere colpa del fumo di sigaretta.

A noi non parrà granché, ma il fatto di non poter andare a caccia e a pesca ha causato profondi problemi sociali a Fort Chip, perché li ha sradicati dalle loro tradizioni e dal loro vivere in simbiosi con la natura. Non si insegna più ai giovani a pescare, a mettere le trappole per gli animali. Alcuni continuano a mangiare ciò che catturano, ben sapendo dei rischi alla salute. E siccome caccia e pesca erano anche fonte di reddito, sono scomparse anche quelle. I residenti di Fort Chip hanno pian piano iniziato ad interessarsi ad altre attività, che ironicamente sono spesso di servizio ai petrolieri, perché non c’è niente altro da fare. Allo stesso tempo, i costi sono qui esagerati, tutto arriva per via aerea, perché le strade sono spesso ghiacciate. Un sacco di patate costa circa 15 euro.

Nessuno sa quale sia la risposta o ha il coraggio di pensare all’unica risposta possibile: fermare la follia e far pagare alle imprese petrolifere fino all’ultima lira di bonifica ambientale.

Mutatis mutandis è la stessa situazione della Basilicata dove pian piano l’inquinamento inizia a pervadere tutto, fiumi, aria, acqua, politica e non si sa o non si vuole sapere come se ne esca. Un paio di settimane fa, per dirne una, hanno vietato l’utilizzo di acqua potabile nei pressi del pozzo Perticara 1, perché inquinata da metalli e altri elementi pericolosi per la salute dell’uomo fra cui manganese, solfati, nichel e cloruro vinile.

E’ per questo che è meglio non far arrivare le imprese petrolifere dall’inizio.

Qui le foto della deforestazione in Canada, la nazione che distrugge più foreste al mondo a causa dell’estrazione di bitume dalle Tar Sands.

Articolo Precedente

Tumori e inquinamento: nel 2050 in Gran Bretagna non uccideranno più. È vero?

next
Articolo Successivo

Grandi opere? No, grazie

next