Abbiamo recentemente festeggiato il primo anniversario di Social street. Non mi piace fare bilanci, come spesso in queste circostanze viene richiesto, perché la parola “bilancio” mi rimanda al mondo dell’economia, dove i conti sono in positivo o in negativo. Come ormai sapete Social street può essere considerato un esperimento sociale che per precisa scelta (ma forse sarebbe più corretto dire per giusta intuizione) non ha voluto seguire gli schemi classici cercando di evitare qualsiasi rapporto con l’economia: l’esperienza di questo primo anno ci dimostra che non è facile seguire i propri principi se non ci si crede fermamente.

Nell’implementare Social street volutamente non abbiamo creato una struttura che stabilisse regole ferree, non abbiamo registrato loghi, non abbiamo sposato i classici meccanismi che guidano la nostra economia basati sul do ut des, abbiamo tenuto fuori l’economia e la politica per preservare l’obiettivo originale del progetto, ricostruire la socialità nelle città, a costo zero. Un messaggio semplice dal forte impatto sociale, la potenza del saluto, di un abbraccio fra vicini di casa, la potenza del dono… non sono misurabili in un “bilancio” perché sono relazioni, sono capitale sociale impagabile. Da questa “banalità” del messaggio sta scaturendo un’energia ed una forza che a detta dei sociologici, non ha precedenti e per questo siamo oggetto di studio. Non è un caso che attualmente abbiamo diciotto tesi di laurea differenti che studiano il modello Social street fra sociologici, antropologi, psicologi della comunità, economisti.

Il 9 settembre scorso sono stato invitato a partecipare ad una tavola rotonda al Senato come uno dei rappresentanti della cittadinanza attiva: a questo tavolo erano presenti politici, amministratori, sociologici. Il cuore del discorso era capire come le istituzioni potessero/dovessero interagire con questa forme di auto-organizzazione. Questo aspetto mi fa sorridere perché sembra che sia un dato di fatto che le istituzioni debbano regolamentare e gestire la cittadinanza attiva prima ancora di analizzare e verificare la reale partecipazione, senza preoccuparsi minimamente del valore sociale del progetto, ricostruire senso di comunità, appartenenza, condivisione… tutti si precipitano sulle conseguenze di questi progetti, sul come regolarli, come gestire la sharing economy auto organizzata senza pensare che Social street lavora ad un livello precedente, molto più importante di tutti questi “dettagli”. E’ curioso osservare che da una parte il messaggio proveniente dalle Istituzioni sia quello di “delegare” incarichi alla cittadinanza attiva ma dall’altra parte non si ha fiducia e quindi si pensa a come regolare la spontaneità delle persone che è il cuore di Social street.

Al Senato ho riportato un esempio pratico. E’ il mese di agosto, in una delle 337 social street un signore fa un post nel gruppo Facebook dei residenti segnalando che nel parco dove va a correre tutte le mattine c’è un rubinetto della fontanella che perde. Una signora prontamente risponde che sarà sua cura chiamare il settore verde e manutenzione del comune. Dopo cinque giorni lo stesso signore che continua a correre tutte le mattina risegnala che la fontanella continua a perdere, che si è formato un lago, che si stanno buttando via soldi pubblici quando basterebbe cambiare una semplice guarnizione e lo stesso cittadino si offre di farlo. A quel punto interviene nella conversazione una terza persona che ricorda allo stoico corridore che quella fontana non è di sua proprietà ma del Comune e se fosse intervenuto si sarebbe preso una multa. Il signore risponde che lui è il comune perché i soldi che si stanno buttando per l’acqua sono i suoi e che quindi regolamenti o meno, avrebbe cambiato quella guarnizione e cosi ha fatto risolvendo un problema. Vogliamo definire questo corridore un cittadino attivo, o criminale? O criminale attivo? Quando nella propria casa si fulmina una lampadina e si deve prendere la scala per sostituirla, non ci interroghiamo prima di salire, se abbiamo un’assicurazione o meno nel caso di infortunio, lo si fa e basta perché è giusto così.

Ormai siamo abituati a pensare il mondo diviso fra pubblico e privato, può esistere qualcosa in mezzo? Chi sostiene che le Istituzioni debbano intervenire per regolamentare la cittadinanza attiva adducono che devono farlo per tutelare gli altri. Se abbiamo un’aiuola incolta e dei cittadini decidono di prendersene cura, tagliare l’erba e piantare dei pomodori, non possono farlo, devono firmare un contratto (“patto”) con l’amministrazione perché se dei vicini volessero piantare melanzane nascono problemi. A quel punto interviene la mano pubblica a gestire. Banalizzando è questo il concetto, si dimentica però che le Istituzioni non fanno che lamentarsi della scarsa partecipazione delle persone, dello scarso senso civico, al Senato, il tema della tavola rotonda, era proprio capire come rilanciare il capitale sociale.

Non possiamo aspettarci che dei cittadini si entusiasmino a firmare dei contratti con l’amministrazione, tutto quello che viene fatto lo si fa perché c’è spontaneità, partecipazione, condivisione, nel rispetto degli altri perché questo è Social street. E’ quello che il sociologo Richard Sennett, prof alla New York University (che peraltro si è interessato a Social street) chiama “collaborazione aperta informale”. Su queste tre parole si basa Social street, tre parole che fanno fatica a sposarsi con le Istituzioni ecco perché forse è giusto iniziare a pensare ad una “terza via” che comprenda la politica, l’economia, le persone.

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