Un mese di polemiche estive, di vertici poco segreti con Matteo Renzi e di appelli disperati da stampa e politica non ha cambiato la linea di Mario Draghi: i governi devono fare le riforme strutturali per trasformare nel profondo le loro economie, non può essere la Banca centrale europea a risolvere i loro problemi con la scusa che i prezzi sono piatti (inflazione nell’Eurozona allo 0,4 per cento invece che al 2, obiettivo di Francoforte). Dal convegno americano dei banchieri centrali a Jackson Hole, Wyominig, Draghi non riserva sorprese. E neppure la padrona di casa, Janet Yellen, presidente della Federal Reserve la banca centrale americana.

Il tasso di disoccupazione negli Usa è al 6,2 per cento, quattro punti sotto il picco del 2009, e continua a migliorare: la Fed mantiene i tassi a zero, ma se i miglioramenti del mercato del lavoro continueranno a superare le stime della banca centrale, il costo del denaro potrebbe salire “prima di quanto il Comitato al momento si aspetta e poi essere più rapido”, spiega la Yellen, confermando i timori di chi si aspetta presto la fine dell’era del denaro facile. Anche gli acquisti mensili di titoli del Tesoro Usa finiranno a ottobre.

Jackson Hole è però sempre l’occasione per analisi più approfondite di quanto consentano di solito di discorsi dei banchieri centrali. Tema: il rapporto tra politica monetaria e mercato del lavoro.

La Yellen guida la Fed che, oltre a preoccuparsi dell’inflazione come la Bce, ha come obiettivo statutario di perseguire la massima occupazione. Mentre in Europa i disoccupati aumentavano, con la crisi del debito sovrano nel 2011, negli Usa diminuivano. E secondo i libri di testo, quando la disoccupazione cala, tanti lavoratori nuovi hanno uno stipendio da spendere, sale la quantità di soldi in circolazione quindi salgono i prezzi e arriva l’inflazione. Non è andata così: “I salari reali (cioè al netto dell’inflazione) stanno crescendo meno rapidamente della produttività, e questo ha implicato che il costo del lavoro per unità di prodotto è andato riducendosi. Una traiettoria che suggerisce che ci sia spazio per i salari nominali di accelerare senza creare una significativa pressione sulle aspettative di inflazione”. Tradotto: l’economia americana è mutata nel profondo, tra gas scoperto nelle rocce a poco prezzo, innovazioni tecnologiche e afflusso di immigrati. E quindi anche se aumentano gli occupati, i prezzi non salgono e le imprese diventano più competitive. In queste condizioni, la Fed potrebbe rimandare la stretta monetaria anche se l’inflazione dovesse arrivare al 2 per cento (nel 2014 la crescita dei prezzi dovrebbe essere +1,9, stima l’Economist).

Draghi ha altri problemi: inflazione quasi zero e disoccupazione nell’area euro all’11,5 per cento. Ci sono vari punti non banali nella sua relazione. Primo: la crisi del debito sovrano ha pesato sull’occupazione sia perché ha spinto i Paesi indebitati a tagliare spesa pubblica e dunque a penalizzare l’occupazione, ma anche perché ha reso inefficaci molti dei tradizionali strumenti di politica monetaria che servono a dare sollievo. E a fine 2013 i disoccupati strutturali – quelli che difficilmente saranno riassorbiti – sono arrivati al 6 per cento, prima della crisi erano meno della metà. Com’è successo?

La versione di Draghi: i Paesi che avevano un mercato del lavoro che prevedeva delle flessibilità, come Irlanda o Germania, hanno reagito alla recessione riducendo il costo del singolo lavoratore. Meno straordinari, più part time, accordi aziendali per ridurre i salari salvando l’occupazione. Dove il mercato del lavoro era rigido, invece che tagliare gli stipendi sono stati tagliati i lavoratori. È successo in Italia, ma soprattutto in Spagna e Grecia. Problema: i lavoratori tagliati sono stati espulsi dai settori meno competitivi, che difficilmente saranno in grado di riassorbirli. Come se ne esce? Nel lungo periodo, spiega Draghi, servono lavoratori più qualificati, che abbiano studiato di più e abbiano più competenze, così da fare in modo che l’economia si sviluppi nei settori a più alto valore aggiunto, là dove ci sono le migliori opportunità. E nel breve? Qui il discorso del presidente della Bce si incarta un po’.

Draghi riconosce che servono stimoli alla domanda aggregata, cioè ai consumi: nell’eurozona la Bce non ha potuto finanziare direttamente i governi, cosa che in Paesi come Usa e Giappone ha ammorbidito l’effetto delle misure di austerità (singolare ammissione per il banchiere centrale). E gli Stati sono ingabbiati dalle regole di bilancio adottate a livello europeo per renderli credibili davanti ai mercati. E dunque? Ecco la frase che è piaciuta a chi sperava in un ammorbidimento di Draghi e che, secondo il Financial Times, ha spostato la Bce su posizioni più vicine a quelle di Renzi: “La flessibilità esistente [nei vincoli di bilancio] potrebbe essere usata per affrontare meglio la ripresa debole e affrontare i costi delle riforme strutturali”. Ma non è chiaro come: nell’approccio di Draghi bisogna semplicemente tagliare la spesa pubblica là dove è poco produttiva e spendere di più dove i denari di Stato rendono meglio. Meno forestali in Calabria e più incentivi alla ricerca, per semplificare. Il sempre più frustrato commissario alla spending review Carlo Cottarelli potrebbe spiegare a Draghi che non è così facile e politicamente indolore.

Twitter @stefanofeltri

Da Il Fatto Quotidiano del 23 agosto 2014

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