“Dimenticate gli eroi. Tim non era un “fotografo cowboy”, ma un uomo intelligente, colto e follemente innamorato dell’essere umano. Lui cercava le persone, non il territorio di guerra, né tantomeno il martirio sul campo”. Così lo descrive l’amico e collega italiano Franco Pagetti, fotoreporter per le massime testate internazionali e, come l’amico ucciso tre anni fa in Libia, spesso impegnato in territori sfregiati dai conflitti. Il britannico Tim Hetherington è stato colpito da un’arma da fuoco il 20 aprile 2011 a Misurata, dove era andato in piena esplosione dei disordini libici. Pochi mesi prima era stato protagonista a Hollywood, candidato all’Oscar con il suo documentario Restrepo – Inferno in Afghanistan – già vincitore del Sundance. L’aveva codiretto col collega Sebastian Junger (nella foto), che per ricordarlo ha firmato in solitaria un doc-biopic su di lui, dal titolo Tim Hetherington: dalla linea del fronte, dal 3 aprile nelle sale italiane.

Ironia della non-sorte, il film esce a pochi giorni dal ventennale della scomparsa della nostra Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, vittime di guerra a Mogadiscio. Sembra un monito a non dimenticare chi ha vissuto (e vive) il giornalismo sul campo non per diventarne protagonista, ma per esserne testimone-documentatore, veicolo di un’etica della comunicazione che sembra sbiadirsi nel mare magnum digitale del “siamo tutti reporter, fotografi e scrittori”. No, non è così. Passione reporter, come tuona il titolo del volume di Daniele Bianchessi (Chiarelettere, 2009) è un’altra cosa. “È la capacità di capire e restituire una storia dentro al caos del dolore. Perché non dimentichiamo che la sintesi di una guerra equivale alla parola dolore”, sottolinea Pagetti. “E questo dolore non è univoco, ma assolutamente ambivalente in un contesto complesso come quello di un conflitto armato. Il reporter di guerra – anche se odio questa espressione – non deve sentirsi il protagonista dell’azione, ma a servizio di essa. È un lavoro etico, prima di tutto. Oggi troppi giornalisti e fotografi si sentono divi e questo atteggiamento per gente come Tim, come Chris Hondros (finalista al premio Pulitzer, ndr) ucciso insieme a lui, ed anche come me, è insensato, assurdo”, precisa il fotoreporter milanese, non estraneo all’attività fianco-a-fianco con soldati sbattuti al fronte, e non sempre volontariamente. “Il tema è antico quanto l’uomo, ma non perde d’attualità ogni qualvolta alcuni episodi risultano fatali a chi si pone da intermediazione neutrale, ovvero i foto e videoreporter. Fare il fotografo o il foto/videoreporter non è una professione, è uno stile di vita, di pensiero, una visione di mondo che necessariamente ti mette in un atteggiamento di servizio agli altri”.

Pagetti consceva bene Tim Hetherington, erano amici stretti. Il collega inglese, morto a soli 41 anni, lo ospitava ogni volta che si recava a New York, nella sua abitazione di Brooklyn che “non era aperta a tutti, perché Tim era una persona molto riservata e discreta”. “Ci siamo sentiti al telefono fino a poche ore prima dalla sua morte – ricorda con la voce ancora spezzata – perché mi aveva chiesto di fare alcune spese che gli servivano al ritorno dalla Libia, dove ci eravamo rivisti un mese prima nello stesso hotel. Poi io ero ripartito alla volta di Doha a fare un servizio per Al Jazeera. Sono sceso a fare quelle compere, e nel pomeriggio alle 16 mi hanno telefonato dicendomi che Tim non c’era più”. La descrizione illustrata da Franco Pagetti del giovane non-eroe inglese coincide con quanto è mostrato nel bel documentario girato e montato da Junger, che pure lo conosceva assai bene, avendo condiviso con Hetherington il periodo di riprese nella afgana Restrepo per documentare la vita dei soldati americani sul fronte, che poi è il tema sviluppato nel film premiato al Sundance e candidato dall’Academy. Alto, slanciato, bellissimo. Tim aveva un sorriso largo, lo sguardo cristallino devoto alla curiosità di conoscere il genere umano da vicino, di mescolarsi al suo “(s)oggetto fotografico”.

Pagetti e Junger lo definiscono “persona particolare, un uomo che cercava la gente, non si sentiva artista e forse poco gli interessava la fotografia tout court. Spesso lo si incontrava al parco assorto ad osservare gli scoiattoli”. Era raffinato, coltissimo, avendo studiato ad Oxford, e semplicemente molto intelligente. “Tim aveva un solo difetto: faceva un risotto agli asparagi che faceva schifo. E ogni volta me lo propinava sperando nei miei complimenti!” scherza Pagetti. Ha vissuto più in Africa che altrove, dopo esservi recato per un servizio sulla Liberia durante la guerra. E non a caso la sua compagna era somala. Dell’intenso Restrepo – Inferno in Afghanistan colpiscono soprattutto alcune immagini: gli scatti effettuati da Hetherington ai soldati che dormono. Sono lontani dal campo d’azione, innocenti come bambini, esseri umani allo stato puro. “A Tim interessava spogliare la realtà del superfluo. Davanti a lui il re è nudo. Questo lui voleva e su questo ha fatto un libro. Di certo non è andato a cercare la sua morte perché ripeto: non era un cowboy”. Tim Hetherington: dalla linea del fronte di Sebastian Junger non solo sarà visibile nelle sale il 3 aprile grazie a iWonder Pictures, ma sarà programmato su Laeffe il 16 aprile e prossimamente uscirà come cofanetto Feltrinelli Real Cinema.

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