Ha scritto Isocrate nel Panatenaico che la politeia è “l’anima della città”, la psiché poleos, “esercitando su di essa un potere pari a quello della mente sul corpo. È essa che delibera su tutti i problemi, che conserva i successi ed evita le disgrazie, insomma è la causa di tutto ciò che accade alle città”. Aristotele la definiva “bios poleos”, ovvero la vita stessa delle città. Dunque, città come organismo umano, vivente e pulsante, di cui la politeia è elemento caratterizzante e fondativo. Una politeia di qualità è indispensabile per realizzare il fine ultimo della polis, che secondo la visione aristotelica era di far vivere bene l’uomo, animale politico per eccellenza. E come si può far vivere bene l’uomo se non investendo sui giovani, su quello che per gli antichi greci era il cruccio culturale principale, ovvero la cura dei paideia?

Un buon esempio è meglio di mille leggi, dice un assunto cinese e il motivo è presto detto. In un momento sociopolitico in cui fioccano summer school, open day, flash mob e corsi per corrispondenza che sanno molto di embedded, un gruppo di giovani veneti, sotto l’ombrello del Centro Studi Europa e stimolati da Matteo Zanellato, ha deciso di tornare a quell’abitudine che andava in scena nelle polis greche, con i paideia che venivano educati ascoltando lezioni e analisi, passi di Socrate e visioni innovative per ragionare su che cos’è l’Europa oggi è cosa potrà diventare dopo le prossime elezioni europee.

In Grecia l’educazione iniziava sin da bambini, una figura tipica di educatore è quella di Chirone, pedagogo di Achille che gli insegnò caccia, equitazione, giavellotto, lira, chirurgia e farmacopea. Omero ha incarnato la figura del vero educatore della Grecia, come osserva Platone, mentre secondo quanto scritto da Senofonte, la paideia omerica aveva l’obiettivo di formare l’uomo perfetto grazie all’atmosfera etica, nello stile di vita dei suoi eroi. Vedere un gruppo di 20enni che investe un fine settimana del proprio tempo nella conoscenza e nell’apprendimento analitico sulla scorta di quale Europa avremo dopo il 25 maggio (data delle elezioni europee più euroscettiche che il continente ricordi) è segno di vitalità. Vitalità di non addormentarsi su uno status quo di diritti cassati e aziende che chiudono, di politiche nazionali senza lungimiranza che non hanno formato euroburocrati italiani, di mille e più candidati che promettono di battere i pugni sui tavoli di Bruxelles salvo poi accucciarsi dinanzi al calduccio di quel caminetto, di imprenditori che spesso fanno i prenditori, e di uno Stato che si fa nemico di chi potrebbe risollevare le sorti del nostro Paese.

Vitalità è lanciare il seme della conoscenza senza più il timore che non produrrà una pianta, ma finalmente consapevoli che le nuove generazioni, al netto di immani difficoltà e disservizi italici che perseverano, sono forse migliori di quelli che, con le spalle ampiamente coperte da grandi gruppi – familiari e industriali – sloganeggiano di bamboccioni e di poca voglia di produrre. Mentre il resto del Paese è già un bel pezzo avanti.

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