Qualche settimana fa, dalle pagine di Internazionale, Rob Brezsny diceva a noi Pesci che questo è il momento giusto per cambiare il modo di reagire alla paura. Secondo Brezsny “siamo forti, scaltri e dinamici” qualità vincenti per mettere le paure al nostro servizio, anziché permetter loro di logorarci.

Ho cominciato a riflettere su quanto la paura – ma sarebbe più accurato parlare di ansia – influenzi la nostra vita, amareggiandola e peggiorandola nella qualità quotidiana.

Vent’anni fa, quando ebbi il primo attacco di panico su un volo di ritorno dal Canada, la società ancora non parlava apertamente di questo disturbo e la gente intorno a me liquidava la questione come un fattore legato allo stress, mentre alcuni temevano fossi diventata matta.

Col passare del tempo, sempre più persone hanno cominciato a uscire allo scoperto parlandone liberamente, ciononostante il fenomeno – presente ad ogni età – non accenna a diminuire.

Sara da giovane si buttava col paracadute e in deltaplano, adesso non guida più in autostrada, per timore che possa sopraggiungere, improvvisa, una crisi d’ansia. Daria invece non frequenta i luoghi affollati perché si sente mancare l’aria e Marta difficilmente resta da sola perché teme di non ricevere aiuto immediato “se dovesse capitarle qualcosa”.

La paura e l’ansia sono spesso associate alle debolezze femminili, ma anche l’universo maschile non ne è immune: Marco, quando sente un formicolio al braccio e un senso insopportabile di soffocamento lo attanaglia, vola al pronto soccorso per essere rassicurato che non si tratti di infarto. Johan, un vecchio studente svedese, ingegnere di successo, preferisce guidare trenta ore di fila invece di prendere l’aereo per raggiungere l’Italia.

L’aumento di quella vaga, indistinta sensazione di inquietudine è acuito, oltre che da uno stile di vita sempre più lontano dalla propria natura, dalla strategia del terrore in atto da parte di media e informazione.

Chi non ricorda quando alle porte del 2000 non si parlava d’altro che di millennium bug e dei possibili black out di intere città? Qualche anno fa ci bombardarono con la temibile influenza H1N1 tanto da innescare nei cittadini una battaglia senza quartiere ai germi, facendo impennare i vaccini antinfluenzali, nonché le vendite di Amuchina (alcune amiche costringevano gli ospiti a togliersi le scarpe dotandoli di copriscarpe da ospedale!).

Al telegiornale, la maggior parte delle notizie sono legate a morte o fatti violenti non necessariamente meritevoli di rilevanza nazionale, come dimostrano i programmi di Barbara d’Urso.

Sul meteo l’italiano medio ne sa più dei Giuliacci e tra allerte su tempeste di neve, caldi africani, freddi siberiani e bombe d’acqua, si passa più tempo a consultare i siti online che a mettere il naso fuori e guardare il cielo.

Lo studiato sensazionalismo linguistico, costellato da parole come ‘terrore’, ‘shock’, ‘dramma’, ‘fulminante’, ha finito per tenere la nostra vita in costante stato di preallarme, convincendoci che il pericolo è ovunque e imminente. Un popolo terrorizzato è un popolo più vulnerabile, ergo manipolabile.

Da quella notte di angoscia di molti anni fa, molte cose sono cambiate e io non sono più la ragazza spaventata colta in contropiede da una reazione imprevedibile.

Non saprei dire se sono completamente fuori dal tunnel, un po’ come gli ex fumatori, cauti anche a distanza di anni.

Ma mi sforzo ogni giorno, di abbracciare le parole di Lydia Cacho – giornalista e difensora dei diritti delle donne in Messico – quando dice “non sono impavida, ma nemmeno mi lascio sopraffare dalla paura”.

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