Da oltre un anno il pm antimafia Nino Di Matteo, che sostiene l’accusa nel processo sulla trattativa Stato-mafia, è minacciato di morte proprio per quel processo e per le indagini collegate tuttora in corso.

Nel settembre 2012 gli giunse un dossier anonimo di 12 cartelle con lo stemma della Repubblica italiana, di chiara fonte investigativo-istituzionale: lo avvertiva che insieme ai colleghi impegnati sul caso trattativa era spiato da “uomini delle istituzioni” che poi riversano le informazioni a una “centrale romana”, che si stava inoltrando su terreni pericolosi, che doveva fidarsi solo di Ingroia, che una serie di politici della Prima Repubblica coinvolti nella trattativa non erano stati ancora toccati dalle indagini e che l’agenda rossa di Borsellino era stata trafugata da un carabiniere.
Seguirono alcune lettere anonime con minacce mafiose e annunci di un imminente attentato avallato da Totò Riina dal carcere.
Il 26 marzo, un mese dopo le elezioni, giunse la famosa doppia lettera scritta al computer da un anonimo sedicente “uomo d’onore della famiglia trapanese” che annunciava l’eliminazione di Di Matteo “in alternativa a quella di Massimo Ciancimino”, “chiesta dagli amici romani di Matteo” (il boss Messina Denaro) con l’ “assenso di Matteo” (sempre il capomafia di Trapani), “perché questo paese non può finire governato da comici e froci”. Anche quell’anonimo era uomo di apparati istituzionali, conoscendo a menadito gli spostamenti di Di Matteo e di un altro pm palermitano in servizio a Caltanissetta (forse Nico Gozzo) e i punti deboli dell’apparato di sorveglianza.

Per tutta l’estate vari confidenti delle forze dell’ordine hanno confermato progetti di attentato contro Di Matteo con 15 kg di tritolo già arrivati a Palermo, mentre un superesperto di esplosivi illustrava anonimamente i sistemi per neutralizzare il “bomb jammer”, il robot che da mesi si pensa di assegnare alla scorta del pm per il disinnesco preventivo di eventuali ordigni. A fine giugno Riina confidava a un agente penitenziario, che lo scortava in una trasferta processuale, che per la trattativa “io non cercavo nessuno, erano loro (lo Stato, ndr) che cercavano me” e “mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono i carabinieri”.
A quel punto Di Matteo decide di intercettare Riina in un luogo aperto del carcere di Opera dove il boss è solito appartarsi nell’ora d’aria con un boss della Sacra Corona Unita pugliese, Alberto Lorusso. Dal 2 agosto in poi è un’escalation di minacce di morte: Riina è ossessionato da Di Matteo e da quel che potrebbe emergere dal processo e dalle nuove indagini sulla trattativa (“questi cornuti portano pure Napolitano”, cioè i magistrati citano il presidente come teste). E ripete continuamente che bisogna “fargli fare la fine del tonno”.

L’ultima volta, il 16 novembre, prima delle fughe di notizie che inducono i pm a levare le cimici, il capo dei capi ordina: “Tanto deve venire al processo, è tutto pronto. Organizziamola questa cosa, facciamola grossa, in maniera eclatante, e non ne parliamo più, dobbiamo fare un’esecuzione come quando c’erano i militari a Palermo”. Chissà perché un boss al 41-bis può chiacchierare con un collega di un’altra organizzazione. Chissà perché – come suggerisce Lirio Abbate – il ministero della Giustizia e il Dap non gli applicano il 14-bis dell’ordinamento penitenziario, che consente ulteriori limitazioni al carcere duro fino a sei mesi.

Ieri Di Matteo – fatto mai accaduto a un magistrato antimafia, neppure nel ‘92 – non ha potuto presenziare per motivi di sicurezza all’udienza milanese del processo sulla trattativa, proprio quella dedicata all’audizione di Giovanni Brusca, che nel ‘ 96 svelò i negoziati fra il Ros e Riina tramite Ciancimino. Avrebbe dovuto muoversi su un carrarmato Lince tipo Afghanistan, e comprensibilmente ha rifiutato.

C’era da attendersi almeno in questi giorni, dopo l’allarme lanciato dal ministro dell’Interno Alfano e la visita eccezionale di domenica al Viminale dei procuratori di Palermo e Caltanissetta, Messineo e Lari, una parola di solidarietà a Di Matteo dall’Anm, dal Csm, dal premier Letta e dal presidente Napolitano.

Invece dalle cosiddette istituzioni tutto tace. Letta jr. difende lodevolmente i giornalisti “messi alla gogna” da Grillo (non quelli minacciati dal suo viceministro De Luca), ma il caso Di Matteo non gli risulta. E che dire del Colle? Ha oggettivamente contribuito a isolare i pm della trattativa trascinandoli dinanzi alla Consulta, presiedendo il Csm che da un anno processa disciplinarmente Di Matteo (per un’intervista sulle sue telefonate con Mancino) e accampando scuse puerili per non testimoniare al processo. Ora dovrebbe precipitarsi a Palermo per rispondere alle domande dei pm e dimostrare anche plasticamente che lo Stato è con loro, anche rinunciando al privilegio di essere ascoltato nel suo ufficio al Quirinale. Invece niente, silenzio di tomba anche di lì.

A questo punto tocca ai cittadini far sentire la loro vicinanza a Di Matteo, ai suoi colleghi e agli agenti delle scorte. La migliore scorta siamo tutti noi.

Il Fatto Quotidiano, 12 Dicembre 2013

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