Gli occhi castani fissano il lettore, un cappello di lana indossato a ricordare il freddo dell’inverno newyorkese, il velo sul resto del volto a simboleggiare le rivolte arabe. Il personaggio dell’anno 2011 cui il Time dedica la copertina è ‘the Protester’, il manifestante, il contestatore o, per dirla con il disprezzo di Enrico Letta, il professionista del conflitto.

Alla fine del 2010 a Londra viene varato un provvedimento che aumenta le tasse universitarie fino a 9mila sterline e gli studenti inglesi, perfino i tredicenni, assediano la capitale con manifestazioni di protesta. Negli stessi giorni sembra concludersi con l’arresto britannico la vicenda di Julian Assange, diventato con WikiLeaks emblema della richiesta di informazione libera. Nel frattempo, il dibattito politico e culturale si sofferma sul pamphlet scritto da un partigiano francese, Stephan Hessel, che esorta: Indignez-vous!
E, nei mesi successivi, il mondo pare svegliarsi.

La cosiddetta primavera araba scuote Algeria, Tunisia, Egitto, Libia, Siria e altre città e regioni del Nord Africa e del Medio Oriente. In Spagna gli Indignados protestano contro le misure economiche del governo e l’assetto politico del Paese; il metodo di lotta viene spontaneamente esportato: le manifestazioni ateniesi sono forse le più simili, gli accampamenti statunitensi di Occupy Wall Street diventano i più celebri.
Anche l’Italia sperimenta qualcosa. Sebbene l’esperienza italiana degli Indignati appaia piuttosto fallimentare, nel Paese si respira aria di cambiamento; le amministrative arancioni lasciano ben sperare, il referendum è il trionfo dell’Italia consapevole e onesta: a raggiungere l’obiettivo concorrono i volantinaggi spontanei, il passaparola, i movimenti che sembrano finalmente condizionare la politica istituzionale.
Sembra l’inizio di una nuova era.

7 agosto 2011. Dalle colonne del Corriere della Sera un economista commenta la manovra del governo e, nonostante le rassicurazioni di Berlusconi e Tremonti circa l’autonomia delle scelte, scrive, forse meglio informato di altri, che “le decisioni principali sono state prese da un «governo tecnico sopranazionale»”, una sorta di ‘podestà forestiero’ al quale il Paese è, per incapacità decisionale, costretto a dipendere di fatto. Il 12 novembre dello stesso anno, quell’economista, Mario Monti, diventa Presidente del Consiglio e anche l’Italia, al pari della Grecia, scopre quanto un “governo tecnico sovranazionale” neppure eletto dai cittadini del Paese possa decidere della loro sorte.

Viene comunque da chiedersi perché, nonostante i presupposti, dal 2011 non si sia concretizzato quel che ci si aspettava. Perché il manifestante era protagonista del 2011 e ora non lo è più? Perché non abbiamo cambiato il mondo due anni fa?

L’Europa della Troika ha deciso che i cittadini italiani (ma anche gli studenti inglesi, gli indignati spagnoli e greci, perfino i ribelli libici ed egiziani) non avessero diritto all’autodeterminazione. Che l’interesse particolare dell’1%, per usare il gergo di #OccupyWallStreet, avesse molto più valore delle scelte del 99%.
A New York è stato necessario infiltrare il movimento, sfibrarlo dall’interno e delegittimarlo dall’esterno. In Italia le scelte del podestà forestiero, misurate con il nuovo termometro dello spread, hanno inaugurato un nuovo corso. 

Una via d’uscita, però, ci sarebbe stata. Perché, quando uno spettro si aggirava per l’Europa, lo spettro della partecipazione e della richiesta di informazione libera, lo spettro dell’uguaglianza sociale, dei diritti e dello sviluppo sostenibile, la sinistra europea non ne ha approfittato. Si è rinchiusa nell’autoreferenzialità nel migliore dei casi, nelle politiche neoliberiste coperte dalla retorica di merito ed efficienza nel peggiore.

Il 2011 è stato l’anno dell’occasione sprecata. L’anno durante il quale, di fronte a misure che vanificavano le scelte popolari, la sinistra avrebbe dovuto schierarsi compatta dalla parte del popolo e pretendere, forte del consenso collettivo, la costruzione di un’Europa dei popoli, nella quale le decisioni vengano prese da enti rappresentativi e in cui le agenzie di rating non costituiscano la base delle valutazioni e delle scelte di politica economica. L’anno durante il quale si sarebbe dovuta affermare la necessità di attuare le costituzioni sociali e antifasciste, temute dai fantomatici mercati perché affermanti un modello di politica che sulla persona, e non sul denaro, basa le proprie scelte. L’anno durante il quale studiare un piano di sviluppo economico europeo, che renda i lavoratori dell’Unione uguali nei diritti e non nella schiavitù, per eliminare (inizialmente a livello continentale, potenzialmente a livello globale) il ricatto della delocalizzazione.
Invece l’occasione è stata sprecata. 

La critica alla politica economica europea è stata ormai monopolizzata dall’estrema destra becera, ma propagandisticamente più efficace.
Se in Ungheria la Costituzione è stata modificata in senso autoritario e nazionalista, se in Francia Marine Le Pen può dirsi pronta a ruoli di governo, se in Polonia i neofascisti si sviluppano sempre di più e se in Grecia Alba Dorata non è esattamente un movimento residuale, la colpa è di chi, a sinistra, avrebbe potuto intercettare le spinte positive della società verso un’Europa diversa ma ha sprecato l’occasione.

 

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