Le indagini diranno qual è stata la causa tecnica della strage di operai cinesi a Prato – una stufetta elettrica, un mozzicone di sigaretta – ma la causa sostanziale di questi sette morti carbonizzati sono i soldi. I loro e i nostri. I forzati del pronto moda producono capi che vengono acquistati da aziende italiane (o tedesche, o francesi..) che poi li rivendono non soltanto agli ambulanti dei mercati, ma anche alle catene della grande distribuzione che in questi giorni stanno agghindando le vetrine dei loro negozi per Natale. Una catena alla fine della quale ci siamo noi che ci portiamo a casa magliette e vestiti per pochi euro. 

Con la collega Lidia Casti siamo stati in un laboratorio tessile cinese a Milano e abbiamo girato in lungo e in largo per il Macrolotto di Prato, dove è successa la tragedia, per lavorare al libro Chi ha paura dei cinesi (Rizzoli-Bur 2008). Abbiamo parlato (in cinese, grazie a Lidia) con gli imprenditori e gli operai e molte delle cose che ci dicevano sono risultate spiazzanti rispetto alla retorica della schiavitù e dello sfruttamento emersa in seguito al fatto di cronaca. Nel laboratorio di Milano gli operai lavoravano a cottimo: ogni pantalone cucito fruttava 1,20 euro, che andavano per metà all’imprenditore e per metà al lavoratore (nel caso di Prato pare che agli operai andassero 0,40 euro a capo). Quando siamo arrivati, otto lavoratori stavano smaltendo un ordine di 600 pantaloni e 400 gonne da consegnare in due giorni. Tempi e compensi non erano stabiliti dall’imprenditore cinese cattivo stile Oliver Twist, ma da una importante catena della grande distribuzione italiana che fa la pubblicità in tv e ha punti vendita nelle vie centrali di molte città (non la nomino per non rompere il patto con chi ci ha concesso fiducia).

I lavoratori con cui abbiamo parlato dormivano e mangiavano nel laboratorio dove lavoravano 14 ore al giorno, in condizioni simili a quelle di Prato. Ma non erano schiavi. Ci spiegavano che avevano scelto liberamente di emigrare da clandestini mettendo in conto una vita infame per due o tre anni, con l’obiettivo di guadagnare dieci volte quello che avrebbero guadagnato in patria (all’epoca gli stipendi base in Cina si aggiravano intorno a 100-150 euro al mese). Il gruzzolo avrebbe permesso loro di aprire un’attività in Cina. In questa ottica, risparmiare i soldi di cibo e affitto, vivendo letteralmente nel posto di lavoro, accelera notevolmente la realizzazione del “business plan”. Ragionando al contrario, se in Cina si guadagnassero 10mila euro al mese, non verrebbe la tentazione anche a noi? Questo non toglie che esistano condizioni di abuso e di schiavitù, migranti ingannati dai trafficanti e strozzati dal debito, sequestrati, picchiati. Ma non sono la norma dell’immigrazione clandestina cinese in Italia. 

Per capirne di più chiedemmo all’Ilo, l’agenzia dell’Onu che si occupa di lavoro, come considerasse il lavoro dei migranti cinesi in Europa. Dopo un po’ di richieste gentilmente respinte, scoprimmo che un rapporto sul tema era bloccato perché gli studiosi non trovavano un accordo su come giudicare il fenomeno: sfruttamento o autosfruttamento? Schiavitù o autopromozione a condizioni di vita migliori? Il rapporto fu pubblicato ben due anni più tardi, nel 2010, senza che questi dilemmi fossero completamete risolti: “Anche sfruttamento e autosfruttamento”, si legge in un estratto disponibile sul web, “sono a volte accettati perché sia il lavoratore che il datore di lavoro li vedono come temporanei: un prezzo da pagare per un risultato economico di lungo termine”. E voi che ne pensate?

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