Dopo Libia ed Egitto, la Siria. L’Italia che ora, nelle parole del premier Letta e del ministro degli Esteri Bonino, caldeggia una soluzione pacifica sotto le insegne dell’Onu ha contribuito ad armare il regime di Damasco e i ribelli che si fronteggiano da due anni lasciando a terra 90mila vittime. Il contributo italiano è passato sotto traccia perché le forniture non hanno riguardato tanto le armi pesanti come i sistemi di puntamento per i carri russi, che pure abbiamo venduto alla Siria fino al 2009 per oltre 230 milioni di euro. Il meglio, si fa per dire, l’Italia l’ha dato vendendo partite di armi leggere, più facili da piazzare e smerciare ma anche “le più pericolose tra le armi di distruzione di massa”, come ha denunciato Kofi Annan. Siamo tra i primi produttori al mondo. Quante ne abbiamo vendute nella regione del conflitto nei tre anni d’embargo ancora non si sa. Secondo le fonti ufficiali, come le relazioni del governo sull’export, nessuna. Da alcune prove empiriche, su tutte il boom di ordini e fatturati delle aziende italiane verso la regione, la realtà è molto diversa. Ecco come, quanto e perché. 

Basta disarmare l’etichetta. E l’embargo è aggirato
I dati ufficiali si riferiscono infatti alle armi ad uso bellico, come prevede la legge 195 del 1990. Per aggirarla, però, basta far passare semiautomatiche, fucili a pompa e relative munizioni come forniture destinate a corpi di polizia e gruppi di sicurezza. La commessa ricade così nella ben più accomodante legge del 1975, che non prevede comunicazioni obbligatorie al Parlamento e consente ai container di uscire dal radar dei controlli e dagli elenchi delle contabilità ufficiali. E’ successo diverse volte, l’ultima nel 2009, in Libia. Nel distretto delle armi di Brescia, quell’anno, si registrò un’exploit da 8 milioni di euro nelle forniture in direzione di Gheddafi. A Roma, Bruxelles e Washington – almeno ufficialmente – nessuno sapeva nulla. Solo il passaggio dei container presso le autorità maltesi e l’insistenza della Rete italiana disarmo permisero di rintracciare gli 11mila “pezzi” marcati Beretta che erano destinati all’esercito ma formalmente richiesti dal colonnello incaricato della pubblica sicurezza di Tripoli. Quale uso ne avrebbe poi fatto il regime libico è storia. Ma la storia si ripete, stavolta a Damasco. Una spia è stata la vendita da parte di Selex al governo siriano di un sistema di controllo delle informazioni. La vicenda è emersa l’anno scorso a seguito di un cablo di Wikileaks. Una nota di Finmeccanica ha poi spiegato che la commessa era precedente l’esplosione delle violenze e il conseguente blocco e quindi l’azienda non si riteneva responsabile se Damasco ne avesse fatto un uso “militarizzato”. Anche i successivi contatti registrati dal cablo a ridosso dell’embargo erano finalizzati solo al recupero dei crediti. Ma l’episodio aprì una breccia sul metodo.

Le esportazioni di armi e munizioni verso i paesi confinanti con la Siria

L’aumento delle esportazioni verso i paesi confinanti con la Siria
L’arte di aggirare gli embarghi prevede poi un’altra opzione: venderle al vicino. L’Europa che ora si mostra scossa dall’uso di gas sui quartieri orientali di Damasco e prepara un intervento militare ha continuato finora a rifornire di armi e munizioni i confini siriani. Lo documentano, questo sì, i rapporti ufficiali dell’Unione europea: la Turchia, ad esempio, è passata da 2,1 milioni di euro di importazioni di armi leggere europee del 2010 agli oltre 7,3 milioni del 2011; Israele da 6,6 milioni a oltre 11 milioni e addirittura l’Iraq da meno di 3,9 milioni a quasi 15 milioni. Il rapporto 2012 non è stato ancora pubblicato, ma diverse relazioni nazionali confermano l’incremento delle esportazioni verso paesi confinanti con la Siria. E l’Italia non fa eccezione. “Abbiamo rilevato una strana e sospetta anomalia nei dati che riguardano i paesi confinanti”, spiega Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente armi leggere e politiche di sicurezza e difesa di Brescia (Opal). La riprova è contenuta nei dati Istat relativi a ordinativi e fatturati del distretto bresciano delle armi negli ultimi tre anni: le forniture verso il Libano sono passate da 145mila euro a 1,2 milioni, quelle verso Cipro da 864mila a 1,1 milioni, verso Israele da 2,3 a 2,5, ma soprattutto verso la Turchia che in quattro anni ha decuplicato gli ordinativi, passando da meno di 1,7 milioni a 36,5. In totale l’area intorno alla Siria è passata dagli 8,2 milioni del 2009 ai 42 milioni del 2012. 

Fortissimo il sospetto che siano rifornimenti destinati ad alimentare il conflitto in Siria e su entrambi i fronti, ribelli e regime. “A meno che non si voglia credere che siano di tipo sportivo, per la caccia o per la difesa personale”, accusa Carlo Tombola, coordinatore scientifico di Opal che sollecita un’interrogazione parlamentare sulla vicenda. Perché l’opacità nelle informazioni chiama in causa il governo, le imprese italiane e l’Europa. “È gravissimo – continua l’esperto – che l’Italia, tra i maggiori produttori mondiali di queste armi, continui a comunicare all’Unione europea cifre che non trovano riscontro né nelle relazioni governative inviate al parlamento né nei dati sulle esportazioni di armi forniti dall’Istat”.

Rete italiana disarmo punta il dito contro un sistema di regole che sembra fatto apposta per aiutare industrie spregiudicate, anche partecipate dallo Stato, ad aggirarle. “Le continue esportazioni di armi leggere verso i paesi confinanti con la Siria – dice Francesco Vignarca, coordinatore di Rid – evidenziano che gli stati membri dell’Ue sono ancora lontani dall’applicare le norme che di comune accordo hanno deciso di adottare per promuovere la pace e la sicurezza. Come hanno dimostrato i casi delle forniture di armi alla Libia, all’Egitto e oggi alla Siria, l’inosservanza delle normative comunitarie sull’export di armi finisce con l’alimentare tensioni e conflitti con il conseguente carico di vittime e di profughi”.

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