Baffetto sbarazzino, sguardo appuntito, sorrisetto sornione, una lacrima alla Pierrot tatuata sotto l’occhio destro. È piuttosto infido, Gennariello, di una spregiudicatezza che porta anche gli altri detenuti a tenersi a una certa distanza. Ormai giovane adulto, avendo cominciato la sua “carriera” dai minorili si può dire che ha passato più anni in carcere che fuori. A scuola viene saltuariamente; con grande spirito di osservazione e innata sagacia si mette presto al passo con gli altri, interviene, dice la sua senza imbarazzo. Poi sparisce di nuovo, per lunghi periodi di assenza che in cui si suppone se ne stia con i suoi compagni di clan a architettare chissà quale impiccio.

Un giorno me lo ritrovo sul palco, per il laboratorio teatrale organizzato dall’educatore Antonio Turco che, alla fine, si rappresenta nel corridoio delle scuole alla presenza del Direttore, il Comandante e tutte le autorità del carcere. Si tratta di un’attività ormai storica della Casa di reclusione di Rebibbia, di grande valore formativo e “rieducativo”. Si alternano detenuti di tutte le risme e provenienze, raccontano ognuno una piccola parte di verità, propria o dei propri compagni. La mancanza di basi, non solo dal punto di vista della recitazione ma di qualunque tipo, può pregiudicare a volte la resa scenica, ma quel che importa è il risultato finale d’insieme. Tra una recitazione e l’altra s’inseriscono le note potenti della band di Turco, che oltre ai suoi fratelli maestri musicisti si avvale di preziose collaborazioni sia tra detenuti che da artisti esterni. Last but not least, spettacolo nello spettacolo, il ruolo del pubblico che non si premura di partecipare attivamente e calorosamente, con incoraggiamenti e battute appropriate (mai, va detto, irrispettose, soprattutto quando a recitare intervengono volontarie esterne).

Quando tocca a Gennariello, con la sua voce giovane, bassa, suadente, come per incanto si crea un’atmosfera di silenzio e profonda attenzione:

“Un giorno un uomo si ferma al fondo di una terrificante cascata, la cui acqua scorre velocemente lungo le rocce. In cima ci sono dei bambini, ne vede cadere alcuni e si decide a soccorrerli perché essi cadendo si feriscono. Provvede alle cure mediche e chirurgiche e offre loro tutto ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere. Sono così tanti i bambini che precipitano (intanto sagome di carta piccole e leggerissime, sagome di bambino, scendono sulla scena come neve ) che l’uomo si sente costretto a costruire un ospedale.Lavora a lungo e intensamente, accoglie e medica tutti i bambini, e ciò gli procura onorificenze e medaglie che la gente della città gli assegna spontaneamente. Poi l’uomo, osservando meglio cosa succede in cima alla cascata, si accorge che ci sono bambini che cadono perché spinti e altri che cadono mentre spingono. Questi ultimi, pensa l’uomo, devono essere puniti. Costruisce per loro una prigione e ve li rinchiude. Così, egli possiede un ospedale ed una prigione; alcuni bambini vanno in ospedale, altri in prigione. Non vi è certo differenza tra questi bambini: ospedale o prigione, essi sono tutti caduti, anche se alcuni si sono fatti male perché spinti ed altri perché, nello spingere, sono caduti. E poi, un giorno, giunse un altro uomo, più probabilmente una donna, che disse: “Perché non vai in cima alla cascata ed eviti che si spingano?”. E l’uomo rispose: “Non c’è tempo, molti bambini hanno bisogno di essere curati, molti bambini hanno bisogno di essere puniti. Per me sarebbe troppo costoso costruire una scala che vada dal fondo della cascata alla cima, non lo posso fare. Resterò qui!”. Perciò, l’uomo continua a lavorare a modo suo; ma l’intera popolazione, la Società, lo segue e costruisce, continua a costruire molti ospedali e molte prigioni. Questa è una storia triste poiché i bambini continuano a precipitare lungo il margine della cascata.

Per chi fosse interessato, il brano è tratto dal libro Giovani a rischio di D.Bacchini e P.Valerio e la Compagnia “Stabile Assai” è nei prossimi giorni (8-11 maggio, ore 21.00) al teatro Golden di Roma.

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