Nessun complotto, nessun piano di destabilizzazione. Solo una banalissima fine delle illusioni, come per ogni bolla che si rispetti. Dopo il -5% di venerdì 12 aprile, il prezzo dell’oro è calato dell’8% nella giornata di lunedì 15 registrando il maggior ribasso giornaliero dal 1983. Un tracollo cui ha fatto seguito martedì un modestissimo rimbalzo, del tutto insufficiente tuttavia a giustificare per ora un’inversione di tendenza. All’inizio di gennaio, l’oncia d’oro veniva scambiata poco sotto ai 1.700 dollari, a febbraio, il controvalore era sceso sotto quota 1.600 biglietti verdi. Un preludio al disastro degli ultimi giorni e al record negativo toccato a inizio settimana a quota 1.360 dollari circa.

Intervistato da Business Insider, l’esperto di commodities Jim Rogers ha dichiarato di attendersi un’ulteriore discesa verso quota 1.200 dollari schierandosi apertamente nel sempre più nutrito fronte dei ribassisti. Gli argomenti, in questo senso, non mancano di certo, ora che i fattori di discesa sembrano manifestarsi improvvisamente nella loro evidenza. Da un lato, si dice, c’è il calo della domanda di Pechino, direttamente associato al rallentamento della seconda economia del Pianeta. La Cina, dicono le ultime stime, dovrebbero crescere quest’anno ad un tasso del 7,7%, poco per una nazione abituata in passato a centrare anche la doppia cifra. L’India, ricorda ancora Rogers, evidenzia anch’essa una contrazione della domanda, tanto più che la recente decisione del suo governo di aumentare del 50% la tassazione sulle importazioni di oro rende decisamente più costosi gli investimenti in quest’ultimo. 

Ma il ruolo dei mercati emergenti non è tutto. Perché la clamorosa discesa dell’oro, come capita per qualsiasi bolla sgonfia, ha in realtà radici più profonde. Da sempre i metalli preziosi sono considerati un bene rifugio, una caratteristica che si accentua in modo particolare nei momenti di massima calamità. Non stupisce, dunque, che la clamorosa espansione della domanda si sia innescata proprio verso la fine del 2008. L’oro, che alla vigilia del collasso Lehman Brothers viaggiava al di sotto degli 800 dollari per oncia ha sfondato la soglia psicologica dei 1000 dollari nel 2009 per poi raggiungere, nel corso del 2011, quota 1.900. Da lì la volatilità tra 1.500 e 1.800 e, in seguito, l’inevitabile calo secondo il classico schema: gradualmente prima, di colpo poi. Per una spiegazione che, a questo punto, tende ad essere palesemente intuitiva.

La verità è che nei momenti più bui della crisi nessun asset ha saputo raccogliere così tanti consensi come il metallo giallo, solido, almeno in apparenza, come un bund tedesco o un titolo di Stato Usa, ma capace, a differenza di questi, di offrire agli investitori rendimenti da capogiro. Il problema è che oggi il meccanismo si è rotto e lo schema, da qualsiasi prospettiva lo si guardi, non funziona più. Le politiche monetarie espansive hanno contribuito a risollevare il mercato finanziario Usa aprendo la strada al rally delle borse. La ripresa di Wall Street e soci ha evidenziato implicitamente una rinnovata propensione al rischio (investire in azioni è tipicamente più “pericoloso” che mettere i propri soldi nei titoli di Stato) che ha ridotto, va da sé, l’interesse nei confronti dei beni rifugio. La stagnazione europea e la timida ripresa dell’economia reale a livello globale, in compenso, frenano tuttora l’inflazione eliminando così la necessità di accumulare l’oro. In pratica un cerchio perfetto.

A rimanere scottati, ovviamente, sono i teorici del rialzo ad oltranza: dagli investitori che hanno seguito a ruota i profeti come Graham Tuckwell, creatore degli Etf (fondi d’investimento che replicano gli indici) sull’oro fisico che puntava apertamente a quota 4.000 dollari, fino ai gestori dei fondi speculativi come John Paulson e David Einhorn che, tra venerdì 12 e lunedì 15, hanno perso qualcosa come 640 milioni di dollari e a tutti coloro che hanno scommesso sui metalli preziosi con la stessa logica applicata alle commodities alimentari o energetiche. Ma la verità, e a questo punto dovrebbero essere chiaro, è che l’oro non è mai stato una materia prima vera e propria quanto piuttosto una valuta sui generis da utilizzare come strumento monetario. Ne sanno qualcosa le banche nazionali di tutto il mondo che dal 2008 ad oggi hanno visto aumentare le loro riserve d’oro da 29.800 a 31.700 tonnellate. Per i cinesi, ha rivelato in questi giorni il World Gold Council, le circa 1.000 tonnellate in deposito valgono appena l’1,6% del totale delle riserve estere, per gli svizzeri, che ne possiedono una quantità pressoché identica, la percentuale sale al 10%, contro il 2,4% dell’Arabia Saudita (323 tonnellate) e il 15,6% del Regno Unito (310). E l’area euro? Le quasi 10.800 tonnellate nelle casse degli istituti dell’unione monetaria equivalgono al 62,5% delle riserve estere (in Italia il rapporto si colloca al 71,3, in Germania al 72,1), con punte dell’89,6% in Portogallo (382,5 tonnellate) e dell’80,2% Grecia (112). Lecito ipotizzare che il risanamento dei debiti passi anche attraverso la cessione di parte del metallo (Cipro dovrebbe farlo nei prossimi mesi) determinando così l’accelerazione dei movimenti di vendita e la discesa del prezzo.   

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