Adesso è ufficiale: sul fronte finanziario il mercato delle commodities è in crisi conclamata e gli investitori, un tempo in preda alla frenesia da materie prime, si trovano impegnati in una sempre più evidente ritirata strategica. Le cifre le fornisce il Financial Times evidenziando l’inversione di tendenza di medio periodo. Nel corso del 2012, gli asset gestiti dagli hedge funds attivi nel comparto si sono ridotti del 20% mentre i rendimenti medi si sono attestati a quota -3,7%. Il dato, che segue la storica chiusura negativa del 2011 (meno 1,4%), rappresenta la peggior performance del decennio.

A far registrare i risultati peggiori sono stati proprio i colossi del settore. Blenheim Capital Management, il più grande fondo di investimento delle materie prime del mondo, ha chiuso con un rendimento negativo del 5% e una riduzione degli investimenti pari a 1,5 miliardi (su un portafoglio complessivo di 5). Clive Capital, il numero due del settore, ha registrato addirittura un significativo -9%. Il controvalore dei suoi assets viaggia ormai a quota 2 miliardi di dollari, contro i 5 miliardi del suo record storico. Insomma, un chiaro segno dei tempi in uno scenario complessivo che vede le materie prime come uno strumento speculativo meno redditizio.

Il problema, nota il Financial Times, è la sostanziale stabilità dei prezzi, con la volatilità del mercato scivolata ai livelli più bassi da molti anni a questa parte. Come a dire che i prezzi di molti metalli e materie prime alimentari offrono ormai scarsi margini di variazione, quegli stessi margini, beninteso, sui quali è possibile costruire enormi profitti attraverso i futures (contratti di acquisto differito ad un prezzo prestabilito) giocando tanto al rialzo quanto al ribasso. E se a fornire le maggiori opportunità sono oggi i cari vecchi mercati borsistici, tra iniezioni di liquidità e maxi rimbalzi post crisi, non stupisce che il comparto delle commodities sconti attualmente un’autentica fuga degli investitori.

In un modo o nell’altro, dunque, si sperimenta la fine di un’epoca. Un’età dell’oro per i grandi speculatori (fondi hedge ma anche banche d’affari come Morgan Stanley) che per molti anni hanno incassato rendimenti a doppia cifra. Ma anche, al tempo stesso, un momento storico di gravi ricadute soprattutto per i Paesi più poveri, dove i prezzi dei beni alimentari (principale voce di spesa per i consumatori delle nazioni più povere) schizzavano alle stelle con ovvie conseguenze in termini sociali e umanitari.

Tra il 2002 e il 2008 l’indice dei prezzi alimentari registrato dalla World Bank crebbe di 140 punti percentuali a causa, soprattutto, della grande corsa ai biocarburanti che comportava sottrazioni di terra e investimenti sui futures delle materie prime. Un contributo pari al 75% della crescita come scoprirono gli analisti della WB in un rapporto interno tenuto nascosto per un po’ e portato alla luce soltanto da un celebre scoop del Guardian.

Tre anni più tardi la stessa Banca Mondiale avanzò una proposta shock: in un mercato in cui la volatilità dei prezzi delle materie prime alimentari costituiva “la principale minaccia per i Paesi in via di sviluppo”, spiegò l’allora numero uno della WB, Robert Zoellick, le nazioni povere avrebbero dovuto proteggersi proprio attraverso l’acquisto dei derivati. Ovvero gli stessi prodotti finanziari che avevano contribuito alle grandi oscillazioni dei prezzi. Un’operazione, notò allora proprio il Financial Times, nella quale i governi delle nazioni in via di sviluppo avrebbero dovuto lanciarsi nonostante una pressoché totale mancanza di esperienza nelle acrobazie finanziarie. A rileggerla nel contesto odierno, per lo meno sul fronte delle commodities, decisamente una proposta d’altri tempi.

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