La legge di mercato vorrebbe che le battaglie in Borsa si combattessero a suon di offerte e controfferte in denaro. Ma ultimamente a Piazza Affari, complice l’evidente mancanza di liquidità dei “capitalisti” italiani, sembra invece prevalere la linea giudiziaria a suon di esposti in Procura e alle autorità di vigilanza. Con luci ed ombre per le sorti delle aziende quotate, per l’andamento dei titoli e per le tasche dei risparmiatori che ancora hanno di che investire in Borsa.

L’ultimo esempio, in ordine temporale, è quello di Impregilo con i due soci forti, Salini e Gavio, ai ferri corti, ma poco disponibili a lanciare un’offerta pubblica sulla società quotata sul listino milanese. Una battaglia che ha coinvolto procure e Authority, ma che difficilmente si trasformerà in un’offerta pubblica di acquisto che farebbe prevalere la legge del mercato con soddisfazione dei piccoli azionisti.

Del resto la vicenda è nel pieno stile del capitalismo all’italiana. Quello delle scatole di controllo che a catena permettono con pochi denari di tenere le redini di un gruppo e che ha come massima espressione la Telecom, già ai tempi di Roberto Colaninno e poi di Marco Tronchetti Provera, e come fulcro Mediobanca, peraltro grande finanziatore della famiglia Gavio che è anche sua azionista. Ma la liquidità non è più quella di una volta e così, quando il gruppo piemontese, socio di Impregilo con una quota del 29,96%, vede crescere Salini al 29,18% nel capitale del general contractor, altro non fa che tentare di presentare un piano alternativo, con il supporto di Piazzetta Cuccia. E lo scontro così da Piazza Affari si sposta in assemblea con tanto di contestazioni sul bilancio e a danno, in termini di progettualità di lungo periodo, dell’azienda contesa.

Sullo sfondo della battaglia resta la Consob, cui pure Gavio ricorre a metà luglio chiedendo di verificare una eventuale intesa fra il fondo Amber, anch’esso socio di Impregilo, e Salini con contestuale innesco dell’obbligo d’Opa: l’autorità di controllo sui mercati si limita a monitorare l’andamento del titolo in Borsa dal momento che la soglia minima fissata per il lancio dell’offerta obbligatoria è il 30 del capitale della società. E tecnicamente finora nessuno l’ha raggiunta.

Si passa per i magistrati anche nel caso di Camfin, la finanziaria che controlla Pirelli e  dove lo scontro in atto è fra Marco Tronchetti Provera e la famiglia  Malacalza. L’ultimo esposto in questo caso, è stato presentato da Malacalza  e mira a bloccare l’emissione di nuovo debito da parte della società attraverso il lancio di un bond convertibile da 170 milioni sul quale Tronchetti spinge per rimborsare 132 milioni di debiti. La famiglia di imprenditori “genovesi”, chiamata tre anni fa a soccorrere Tronchetti entrando nel capitale di Camfin e del Gruppo di partecipazioni industriali cui fa capo Pirelli, vorrebbe invece un aumento di capitale. Per entrambi la strada scelta è quella del tribunale cui è stata chiesta una prima udienza per il 19 marzo 2013 per verificare se ci sono state “violazioni in tema degli interessi degli amministratori” nella scelta di Camfin di procedere all’emissione del bond. Intanto il confronto prosegue sia cda sia, nel caso di Tronchetti che è anche vicepresidente di Mediobanca, nei salotti alla ricerca di nuovi finanziatori.

Cambiano i protagonisti, ma non il “sugo” della storia nell’affare della Banca Popolare di Milano il cui salvataggio è stato possibile lo scorso anno grazie all’ingresso in scena del finanziere Andrea Bonomi e della sua Investindustrial che ha avuto la meglio sul rivale Matteo Arpe. Anche qui sta indagando la Consob per verificare se all’epoca dei fatti ci fosse un patto occulto tra Bonomi e l’Associazione Amici della Bpm. Un’alleanza che avrebbe appunto consentito al nipote di Anna Bonomi Bolchini, sostenuto sempre da Mediobanca, di battere il progetto alternativo della Sator dell’ex amministratore delegato di Capitalia. Quest’ultimo ormai con gli esposti ha una certa dimestichezza dal momento che assieme alla finanziaria Palladio ha tentato anche di bloccare il progetto di fusione tra Premafin-Fonsai e Unipol con un dossier di accusa depositato all’Antitrust sulle “condotte dei diversi soggetti interessati all’operazione”. Tra cui, manco a dirlo, Mediobanca.

Appare insomma abbastanza evidente che sono lontani i tempi in cui i capitani coraggiosi lanciarono nel 1999 l’Opa alla Telecom. Un’operazione tutta a debito che creò una catena di controllo incredibile: il gruppo di Tlc dipendeva infatti da Tecnost, che faceva capo a Olivetti a sua volta controllata da Bell, che aveva come socio di riferimento Hopa, la holding del finanziere bresciano di Emilio Gnutti in cui sedevano Fininvest, Unipol e Montepaschi. Di quell’epoca sono arrivate ai giorni nostri le scatole cinesi e i debiti. I soldi e le Opa invece no. Quelli proprio no.

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