Fuori da quell’estrema propaggine dell’Eurasia, protesa tra l’Atlantico ed il Mediterraneo, che gli indigeni chiamano Sud Europa, la crisi globale in realtà appare alquanto localizzata. I dati e le previsioni diffuse a metà luglio dal Fondo Monetario Internazionale stimano la crescita mondiale al 3,5% per il 2012 (in frenata rispetto al 2011), ma con una notevole disparità tra economie emergenti ed economie avanzate. Le prime prevedibilmente si espanderanno ad un ritmo più che triplo rispetto alle seconde: 5,6% contro 1,4% nel 2012; 5,9% contro 1,9% nel 2013.

Si potrebbe ipotizzare che il divario sia attribuibile alla crisi, ma i paesi emergenti crescevano ad una velocità quasi tripla già nel 2005, per la precisione 7,3% contro 2,6%. Scendendo in dettaglio si nota che tra i paesi avanzati la palla al piede è l’area euro – in particolare Italia e penisola iberica – mentre USA, Giappone e Canada riescono comunque ad arrancare con tassi intorno al 2%.

Nei paesi emergenti la musica passa dal requiem all’andante con brio (per quanto meno brioso della marcia trionfale di qualche anno fa). Della Cina si parla diffusamente, quindi non sorprende constatare che cresce all’8% (anche se i tassi a due cifre del trentennio passato sono ormai definitivamente alle spalle). L’altro gigante asiatico, l’India, attraversa un momento difficile per lo stallo nelle riforme strutturali, determinato da corruzione endemica ed estenuanti diatribe politiche, ma registra pur sempre un +6%. Stesso ritmo in Indonesia, che fin quando aveva petrolio in abbondanza ristagnava; finito il petrolio ha messo le ali.

In America latina la performance risulta più anemica soprattutto in Brasile (+2,5%), il gigante dell’area, in affanno per il calo dei prezzi delle materie prime e l’apprezzamento della valuta, ma che comunque sta cauterizzando le piaghe del sottosviluppo. Situazione simile in Medio Oriente e nord Africa, dove sussistono forti differenze tra paesi produttori di petrolio (con tassi tra il 5% ed 6%) e tutti gli altri, in particolare laddove è sbocciata la primavera araba. In quelle lande il processo di democratizzazione e sviluppo (ispirato dal modello turco) si dipanerà (come avvenne nell’Europa dell’Est) nel corso di un decennio. Un assaggio di quello che potrebbe accadere ce l’offre la Libia il cui tasso di crescita quest’anno, dopo lo sconquasso della guerra civile, è stimato al 76,3%. E che non sia un caso irripetibile lo dimostra la ricostruzione in Iraq (+11%) paese proteso a rivaleggiare con l’Arabia Saudita nell’estrazione di oro nero.

L’Est europeo e la Scandinavia risentono del contagio dai partner di Eurolandia, quindi crescono a tassi quasi ovunque inferiori al 2%. Però se ci si sposta verso le steppe ed i deserti dell’Asia centrale, i giacimenti di petrolio dal Caspio alla Cina occidentale spingono un boom sorprendente: dal Kazhakistan all’Uzbekistan, dal Tajikistan al Tukmenistan si prevedono tassi tra il 5% ed il 7% che culminano con un +17% nella Mongolia dagli inestimabili giacimenti di minerali.

Le vere sorprese però le riserva l’Africa sub sahariana, un continente fino a pochi anni fa disperso nella terra di mezzo tra disastro e disperazione. Il continento nero non solo non ha risentito della crisi dei paesi avanzati, ma alcune zone ricordano le tigri asiatiche. Il Pil in Niger salirà quest’anno del 14%, in Angola quasi del 10%, in Mozambico del 7% (molti portoghesi si stanno trasferendo nelle ex colonie), in Ghana del 9%, in Zambia dell’8%. Persino paesi devastati dalla guerra civile come Congo (+6,5%), Costa d’Avorio (+8%), Liberia (+9%) e Sierra Leone (+36%) vengono trascinati dalla corrente impetuosa. Riemergono casi disperati Zimbabwe (+5%), Eritrea (+7,5%), Nigeria (+7%), Burkina Faso (+5%) ed Etiopia (+5%). Purtroppo le tragedie non mancano come in Sud Sudan, Mali e Somalia, ma si tratta ormai di eccezioni.

Come si spiega questa traslazione della crescita globale verso il sud del pianeta? Il propellente è stata la demografia. Fuorviati da Malthus eravamo abituati a pensare che troppe bocche da sfamare rappresentassero una zavorra. Per secoli è stato così. Una famiglia, e di conseguenza una nazione, con troppi bambini non riesce a risparmiare, anzi per sopravvivvere si indebita o diventa dipendente da aiuti umanitari. I bambini crescono malnutriti ed analfabeti. Senza risparmio non possono essere finanziati gli investimenti e quindi non esiste possibilità di sviluppo. Ad aggravare la situazione, molti paesi usciti dal colonialismo erano imbevuti del mito nazionalistico dell’autosufficienza con risultati devastanti. Nella Cina maoista, nell’India del Nehru, in tante parti dell’Africa e dell’America latina si moriva di fame per le ricorrenti carestie provocate per per inseguire ideologie demenziali ed autoritarie.

La svolta avvenne in seguito alla liberalizzazione dei movimenti di capitale nei primi anni ’90. Il flusso di risorse finanziarie spezzò il circolo vizioso tra risparmio insufficiente e investimenti asfittici nel Terzo Mondo (come si chiamava allora. A cominciare dalle tigri asiatiche, sono bastate minuscole (per gli standard occidentali) iniezioni di fondi per far lievitare l’impasto di una torta che pareva destinato alla muffa. L’ondata demografica è diventata il volano dello sviluppo prima in Asia e adesso in Africa. Il lancio del WTO e la rivoluzione della logistica hanno poi determinato una ricombinazione epocale delle manifatture mondiali.

Intere industrie, dal tessile all’elettronica, dall’alimentare all’automobile, sono state disaggreagate e riaggregate secondo le esigenze dei nuovi mercati e le potenzialità delle nuove tecnologie. Il commercio mondiale è esploso non tanto per l’import-export di prodotti finiti (come asserito nei libelli di Tremonti e nelle filippiche no-global), quanto per quello di semilavorati e prodotti intermedi determinato dall’integrazione delle filiere produttive internazionali. Il guadagno di efficienza ha generato un ventennio di crescita senza precedenti nell’economia mondiale accompagnata da una riduzione drastica della povertà (soprattutto in Cina). Insomma il declino dei paesi avanzati è il culmine di un movimento tettonico iniziato negli anni ’80. E’ un peccato che l’Italia dai capelli grigi sia sia posizionata sulla linea di faglia e di questo sommovimento invece di essere protagonista è diventata vittima votando alternativamente il demagogo di Arcore e gli incapaci reduci di Botteghe Oscure.

Per mascherare il declino in Italia e in molti paesi avanzati, inclusa l’America, i leader politici hanno perseguito politiche che facessero lievitare a dismisura il debito (talora quello pubblico, talaltra quello privato) fino a renderlo insostenibile.  A questo aspetto vale la pena di dedicare uno dei prossimi post.

Articolo Precedente

Geronzi attacca l’ad di Mediobanca: “Su Ligresti mi usa per giustificarsi”

next
Articolo Successivo

Crisi, l’Ocse ribassa le stime sul Pil: l’Italia è la peggiore del G7

next