Lo spettro dell’iperinflazione turba ancora i sonni della Bundesbank e dei più autorevoli professori universitari tedeschi. E una riprova di ciò è arrivata dalle dichiarazioni rilasciate oggi alla Sueddeutsche Zeitung da Manfred Neumann, professore emerito dell’università di Bonn, nonché relatore della tesi di dottorato del presidente della Bundesbank, Jens Weidmann. Quanto avvenne durante la Repubblica di Weimar (1919-1933) è un trauma collettivo per i tedeschi e lo stesso vale per gli americani con la Grande Depressione (1929-II Guerra Mondiale), durante la quale però il vero flagello dell’economia non fu l’iperinflazione ma il suo opposto, la deflazione.
La crisi economica degli anni Venti in Germania aprì le porte all’avvento di Adolf Hitler e allo scoppio della II Guerra Mondiale (Hitler risollevò l’economia tedesca soprattutto grazie alle commesse dell’industria bellica). Il Trattato di Versailles (1919), che pose ufficialmente fine alla I Guerra Mondiale, stabilì che la Germania doveva riparare i costi della guerra sostenuti dai vincitori (Inghilterra, Francia, Italia, Usa e Giappone). Per fare questo Berlino iniziò a stampare moneta, che ben presto iniziò a svalutarsi rapidamente. Nel 1921 1 dollaro valeva 65 marchi, nel 1922 2.420 marchi e 4.200.000.000.000 nel novembre 1923. Per comperare un chilo di pane ci voleva più di un chilo di banconote e spesso la gente usava la carriola per portare in giro i soldi invece del portafoglio. A un certo punto le banconote, che alla fine venivano stampate da un solo lato per accelerare la produzione, non avevano più neanche il valore della carta su cui venivano stampate e servivano solo ad accendere la stufa.
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