“Non possiamo aspettare”. Vainer Marchesini chiude il suo intervento all’assemblea di Confindustria Modena con le lacrime in gola. Presiede il Wam Group, meccanica ad alta tecnologia, 70 mila metri quadri di capannoni vicino Mirandola, in gran parte inagibili, “dopo la scossa di domenica sera non sappiamo neppure più se le certificazioni del giorno prima sono ancora valide, ma noi abbiamo quindici giorni, poi perdiamo il mercato.

Arrivano già le disdette dai clienti”. Nell’auditorium della Banca Popolare dell’Emilia Romagna l’assemblea annuale degli industriali modenesi è a metà tra la seduta di autocoscienza collettiva e un consiglio di guerra. Niente cena di gala, poche cerimonie al presidente nazionale Giorgio Squinzi, accolto più come il padrone della Mapei e del Sassuolo Calcio che come capo dell’associazione.   

Nella platea mezza vuota e dimessa dell’auditorium le formalità associative, tra cui la rielezione del presidente Pietro Ferrari, si sbrigano in un attimo, poi si passa al terremoto. La situazione è peggiore di quanto percepito a livello nazionale. Le multinazionali non sono più disposte ad aspettare, dopo dieci giorni di scosse, danni, polemiche, e stanno cercando altre sedi: Giuliana Gavioli, direttore generale della B. Braun Avitum a Mirandola (prodotti per la dialisi e cura di malattie rare) passa le giornate al telefono coi suoi capi della casa madre, “mi hanno chiamato dopo la scossa di ieri sera, chiedono quando finirà, come si può lavorare così”. Non ci sono risposte, ovviamente.

Convincere le multinazionali sarà dura, ma per i piccoli ripartire rischia di essere impossibile: Nicoletta Razzaboni è titolare della Cima, producono strumenti per la gestione del denaro (contabanconote, dispositivi di sicurezza), 85 dipendenti. Due stabilimenti, uno inagibile, lo stanno già demolendo. Negli anni quasi tutta la produzione di componenti è stata appaltata all’esterno, a piccolissimi fornitori di meccanica di precisione. “Dobbiamo ripartire noi per far ripartire loro”, dice la Razzaboni. Ma in questa catastrofe a matrioska ogni livello ha difficoltà maggiori di quello superiore: si è rotto un delicato equilibrio di subfornitura e relazioni personali decennali.   

La logica dei distretti, che nelle università chiamano di “competizione”, un po’ cooperazione un po’ concorrenza, può salvare però alcuni settori. Sergio Sassi, della Emilceramica di Fiorano, delinea un modello di sopravvivenza inedito ma che da queste parti non sembra assurdo: i concorrenti si devono aiutare tra loro, chi ha le linee produttive intatte può aiutare chi ha gli stabilimenti bloccati, meglio permettere al distretto di vivere che approfittare della crisi degli avversari. “Ci vuole una delocalizzazione temporanea presso i concorrenti”, dice Sassi, che può offrire i suoi capannoni intatti di Fiorano (sul primo appennino modenese) agli imprenditori di piastrelle ferraresi di Sant’Agostino, bloccati dal sisma.   

La questione più urgente è quella della sicurezza , “non ci stiamo a essere criminalizzati, siamo tornati al lavoro dopo i controlli previsti a norma di legge”, dicono tutti. Il problema è che la norma non considerava il modenese una zona sismica. Il “tormento” degli imprenditori e delle istituzioni, come lo chiama il presidente del consiglio regionale Matteo Richetti, è il seguente: se si riaprono i capannoni subito, dopo i controlli (analoghi a quelli seguiti alla scossa del 20 maggio), non c’è alcuna garanzia che reggano meglio di fronte a nuovi terremoti, a rischio di nuove tragedie. Ma se si tengono chiusi, per dare tempo ai lavori che li rendano antisismici, le imprese perderanno ordinativi e gli operai saranno sicuri ma disoccupati.   

Giovanni Ferrari è il presidente della Lameplast, un piccolo colosso della chimica da 320 dipendenti, ha anche uno stabilimento a Miami: “I grandi compratori americani e la distribuzione tedesca possono aspettare un mese-un mese e mezzo. Poi li perdi. Se il governo ci impone la nuova normativa antisismica significa che non ha capito nulla, ci vorranno mesi di lavori, non possiamo far aspettare tanto i committenti”. L’intervento più urgente per salvare l’economia emiliana non dipende però dal governo: devono finire le scosse, oppure ogni volta si ricomincia da capo, tra certificazioni e polemiche.

Anche la resistenza psicologica di imprenditori e politici comincia a vacillare, come i capannoni.

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