A caldo, ha lanciato un atto d’accusa che è suonato un po ‘ come un grido di battaglia. “Si poteva fare qualcosa prima”. Ecco l’indice di Roberto Maroni, a inchiesta appena sbocciata, contro il gruppo dirigente del Carroccio. “Ma non si è fatto niente; l’abbiamo anche chiesto, in un consiglio federale che ci portassero i conti, che si facesse chiarezza e si facesse un passo indietro”.

E invece? E invece niente. E chi doveva decidere “non ha ascoltato”. Adesso, però, la misura è andata oltre il limite. Ora, giura Maroni, “è il momento di fare pulizia, perché queste cose fanno male alla Lega e ai suoi militanti, è il momento di fare un’operazione trasparenza e mettere le persone giuste al posto giusto”. Poi però, quell’enfasi delle prime ore si è trasformata nel (solito) atteggiamento maroniano guardingo e attendista. A via Bellerio, con Umberto Bossi chiuso dentro per ore con Roberto Calderoli, Roberto Cota e Roberto Castelli, Maroni non si è fatto vedere. Qualcuno ha sparso in giro la voce che temesse di subire l’ennesimo processo, nuove accuse di essere stato lui ad armare la mano del militante che ha consentito ai giudici di mezza Italia di mettere in ginocchio la Lega.

La spiegazione ufficiale: si parla di un Maroni”che non era neanche atteso” alla riunione più difficile degli ultimi anni dei vertici leghisti. Un’assenza che ha però fotografato meglio di ogni cosa il gelo siderale, ormai impossibile da celare, tra le due anime contrapposte della Lega. E che nei prossimi mesi darà probabilmente luogo a una battaglia interna al Carroccio dagli esiti incerti. Il percorso politico di Bossi appare ufficialmente esaurito. E per Maroni ora si apre l’ultima, reale possibilità di prendere saldamente in mano le redini della Lega. Ne va della sopravvivenza stessa del partito, non solo delle sorti politiche e di leadership dell’ex ministro dell’Interno. Lo scontro finale, dunque, sembra cominciato. Gli eserciti sono virtualmente già schierati da tempo: da un lato i maroniani, i “barbari sognanti” come Bobo stesso li ha voluti battezzare. Dall’altro il ‘cerchio magico’, quello stretto entourage di famigli come Rosi Mauro, ma anche come Calderoli, Castelli, Brancher, che in questi anni hanno fatto cortina intorno a Bossi, facendolo arrivare al punto, per dirla con Attilio Fontana, sindaco di Varese, di “non sapere nulla” di quanto gli succede intorno. Oggi è questo nucleo “regnante” a essere sotto accusa. Giudiziaria e politica.

Maroni, però, non è nuovo a improvvise battute d’arresto. Anche se stavolta sono i numeri dei piccoli congressi provinciali che si stanno tenendo da mesi nelle valli padane a dar ragione a lui e alla sua voglia di rinnovamento. L’ultimo domenica scorsa. Quando a Treviso è parso quasi un terremoto che a vincere di misura (425 voti contro 368) sia stato il candidato maroniano Giorgio Granello contro il bossiano Dimitri Coin; solo qualche tempo fa sarebbe parso impossibile anche solo immaginarlo. Maroni, dunque, avanza. E Verona, con l’inossidabile sindaco scaligero Flavio Tosi a un passo dalla riconferma plebiscitaria, sembra il suo avamposto più ambizioso. L’inchiesta di Milano sembra aver anticipato (e reso inevitabile) la necessità di una scelta netta di campo, che senza la mano dei giudici, probabilmente, sarebbe arrivata più in là, forse in autunno. Le prossime settimane chiariranno, dunque, come Maroni porterà avanti la sua azione di conquista del vertice leghi-sta. Se lo farà.

Certo non sarà facile per lui allontanare spietatamente quello che, ormai, è diventato “il marcio interno” e che, fino a solo ieri, era parte integrante della sua vita. Bobo, il “nemico” dell’ortodossia e dei suoi sacerdoti, è stato un compagno di vita di Bossi per oltre trent’anni. Maroni è l’unico cui il Senatùr ha sempre concesso libertà, persino quella di dissenso. Hanno sempre litigato i due, ma non sono mai arrivati alla rottura definitiva. Sfiorata più volte, ma immancabilmente rientrata. Il culmine lo raggiunsero nel ‘ 94: Maroni voleva continuare a sostenere il governo Berlusconi, mentre Bossi era intenzionato a staccare la spina. Il Capo decise per il ribaltone e alzò la voce. “Chi tradisce sarà spazzato via dalla faccia della terra”. L’accusa era per Maroni, ma al PalaTrussardi di Milano, nel febbraio del ‘ 95, Bossi si espresse in modo ancora più esplicito: “A Maroni ho scaldato il latte tutte le mattine, ma è il nostro braccio debole e va amputato”. La lite rientrò dopo l’annuncio di Maroni di voler restare. Ritrovata la serenità, si presentarono al congresso federale straordinario di Milano. E, come sempre, fu Bossi a perdonarlo pubblicamente, ma con un intervento quasi premonitore: “Una Lega bis, caro Roberto, sarebbe solo uno specchietto per le allodole; purtroppo il coraggio se non lo si ha, non si può acquistare al supermercato”.

Ci sono voluti anni perché Maroni lo trovasse il coraggio di dire di no. È stato quando, pochi mesi fa, Bossi gli impedì di parlare a nome del partito, un diktat a cui Maroni non ha voluto allinearsi, comprendendo che obbedire sarebbe equivalso alla sua immediata cancellazione dal movimento. Così ha alzato la voce e ha avuto la meglio. Stavolta dovrà andare anche oltre. Un urlo solo non basta più.

Il Fatto Quotidiano, 4 Aprile 2012

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