Qual è il limite fisico del racconto oggi, Lucio? Per fortuna ci siamo conosciuti quando il successo grande doveva ancora arrivare, quando la sincerità della parola “amico” non era in dubbio fra quella pattuglia di quattro pazzi sprasolati e un poco scemi. Si faceva politica al mattino, all’Università, basket al pomeriggio a Parco Cavaioni e poi ancora politica la notte, da Vito o in macchina a scambiarsi informazioni, ragionamenti e domande sempre irrisolte con Renzo e con Francesco, Claudio, Umberto, Valerio, Stefano e tutti gli altri. Era tutto facile anche quando tutto sembrava impossibile, erano quegli anni in cui tutti ci guardavamo dritti negli occhi e non c’era spazio per l’ipocrisia. I problemi veri erano tecnici, per l’amplificazione come per la pellicola, era un mondo cui gonfiavamo le ruote a mano come a una bicicletta e si faceva prima a partire che a parlare.

Erano anni imprecisi segnati da cose precisissime ma che ci venivano rese distorte e anche ora che non sappiamo tutto non ci siamo ancora abituati a vivere senza verità. Tu non ti capacitavi ancora della morte di Pasolini, era una assenza che ti pesava come ti mancava tua madre che se ne era appena andata. Giravi in Dyane perché il tempo della Porsche era passato. Io non mi capacitavo per la assassinio di Francesco Lorusso e giravo in autobus, di quelli dall’aspetto sociale con biglietto gratuito regalo di una amministrazione niente male. Più spesso però andavo a piedi perché Bologna è comoda e bella e dietro ogni colonna c’era uno scrittore o un musicista, un poliziotto o un sovversivo.
Il mondo sembrava essere ogni giorno a una svolta e di sicuro alla svolta c’eri arrivato tu, ma senza perdere l’aria scanzonata e la voglia di cambiare anche il mondo insieme alla tua vita, così prendesti carta e penna e compisti quell’atto di coraggio artistico che è Come è Profondo il Mare. Lasciasti la collaborazione con Roversi con cui avevi fatto tre dischi splendidi per poesia e musica e prendesti il toro per le corna mettendoti a parlare in faccia alla gente.
E fu il successo, entrasti dritto dentro il cuore e la testa della gente che ancora non sapeva di averti, che ti scherzava ricordandoti urlatore e ora invece tutti si trovavano a contatto con la loro intima necessità di essere.
Ma poi era la normalità con cui rifiutavi di firmare autografi proponendo piuttosto strette di mano e ugualmente rifiutavi le celebrative parole di arte e poesia rispondendo con semplicità “… è la musica, è il mio lavoro”.
E la musica per noi era totale, abbiamo ascoltato il Koln Concert di Jarrett fino a sfondare i solchi del disco, andammo al concerto degli Area all’ippodromo, tu poi partecipasti a quello pro terremotati al palasport dove mi presentasti De Andrè e Jannacci.
Non ti ha più fermato nessuno e ogni cosa che scrivevi andava a segno come un cazzotto di Alì, dal sodalizio con De Gregori alla nascita degli Stadio nei quali all’inizio credevi solo tu, poi Carboni, Angela, Samuele, Tullio, Iskra e il lavoro con Morandi… ma sempre come se niente fosse definitivo, senza mai chiudere una porta, rassegnato a vivere tutta la vita con le mani dentro a un pianoforte, schivando i viaggi organizzati da altri, restando imbambolati a guardare i palloni di una volta che rotolavano sulle scale come le nostre vite perennemente irrisolte e irrequiete.
Povero amico mio, che grossa fregatura che mi hai dato stavolta.

C'era una volta la Sinistra

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