Non sono facili i processi che trattano di ‘ndrangheta al nord. Men che meno quando ci si mettono dimenticanze e disservizi. Lo ha dimostrato il procedimento che a Modena vede imputati i fratelli Paolo, Emanuele e Davide Pelaggi accusati di frode fiscale, ma anche di aver piazzato nel 2006 una bomba all’ingresso dell’Agenzia delle entrate di Sassuolo. Il tutto con l’aggravante, secondo l’accusa, di voler reinvestire parte dei capitali di un potente clan di ‘ndrangheta, gli Arena di Isola di Capo Rizzuto, in provincia di Crotone.

In una sola udienza, giovedì scorso, hanno testimoniato davanti ai giudici della Corte d’Assise, ben quattro collaboratori di giustizia. Due erano in videoconferenza da località protetta, altri due, invece, sono stati condotti direttamente in aula. Scortati da personale di polizia, quando è stato il loro turno, hanno parlato nascosti dietro un paravento, come si fa quando un testimone è seriamente a rischio. Peccato che a Luigi Bonaventura, uno dei due pentiti chiamati a Modena, non fosse stata data nessuna istruzione in anticipo, cosa che l’ha costretto, suo malgrado, ad assistere alle prime battute del procedimento confuso negli spazi riservati al pubblico.

La tensione si tagliava col coltello. Gli agenti della scorta di Bonaventura adocchiavano con attenzione chiunque si avvicinasse troppo e in un paio di occasioni hanno domandato allo stesso pentito come mai qualcuno del pubblico pareva scrutarlo con maggiore interesse. Bonaventura era molto noto nell’ambiente malavitoso, essendo stato sino al 2007 reggente del clan Vrenna-Bonaventura-Corigliano di Crotone. Nel silenzio i minuti passavano, sino a quando, in tarda mattinata, qualcuno non s’è accorto dell’anomalia e il collaboratore è stato immediatamente accompagnato in una saletta appartata per testimoni.

Sistemazione concessa sin dall’inizio ad Angelo Salvatore Cortese, altro pentito di ‘ndrangheta altamente a rischio, rimasto sempre lontano da sguardi indiscreti e chiamato, per quanto a sua conoscenza, a testimoniare sugli affari, tra Modena, Maranello e Reggio Emilia, dei fratelli Pelaggi titolari di una grossa azienda di compravendita di materiale informatico, la cui sede si trova non distante dai cancelli della Ferrari. In videoconferenza, invece, erano collegati Vincenzo Marino e Domenico Bumbaca. Insomma, quello che era il gotha, tra 2005 e 2007, di alcune tra le più attive cosche del crotonese, i Vrenna Bonaventura, ma anche gli Arena, i Nicoscia e i Grande Aracri.

Si era però in corte d’Assise a Modena e non in Calabria. E a detta del Pm Michele Mescolini della Dda di Bologna l’udienza che si andava a celebrare era di particolare importanza e andava preparata nei minimi dettagli. Invece, alle prime battute, quando Bonaventura era tra il pubblico, è mancato addirittura il servizio d’ordine che le forze di polizia dovevano garantire in aula. La presidente del collegio, il giudice Cristina Bellentani, ha voluto così mettere quelle rimostranze nero su bianco, ricordando al Presidente del Tribunale di Modena “la delicatezza del procedimento che si andava a celebrare, per la presenza anche di collaboratori di giustizia” per cui doveva essere “tempestivamente” garantito il servizio d’ordine, come era stata fatta richiesta anticipatamente, “per la sicurezza di tutti gli addetti ai lavori”.

Luigi Bonaventura, proprio sul fattoquotidiano.it aveva fatto presente tutte le falle del Servizio centrale di protezione, che dovrebbe vegliare sul suo domicilio in luogo protetto. Invece, secondo il pentito, qualcosa non sta funzionando e l’accusa che lancia è che ci sia chi fa il doppio gioco. Sulle infiltrazioni della malavita in quel delicato settore è aperta un’inchiesta presso la procura di Campobasso, nel frattempo Bonaventura vorrebbe uscire dal Servizio di protezione ma continuando, naturalmente, a collaborare con la giustizia.

La testimonianza di Bonaventura a Modena, come quella degli altri collaboratori, doveva secondo l’accusa dimostrare la vicinanza dei fratelli Pelaggi con ambienti della criminalità organizzata crotonese. Soprattutto con la famiglia Arena, per tramite di Fiore e Tommaso Gentile, figli del boss Franco, che in abbreviato sono stati condannati rispettivamente a 6 anni e 2 anni e 8 mesi, entrambi con l’aggravante per mafia.

Significativa la testimonianza di Angelo Salvatore Cortese, braccio destro del boss Nicolino Grande Aracri – che di recente è tornato in libertà – e che dal 2005 in poi (sino al giorno del suo pentimento) aveva deciso di mettersi in affari in Emilia. “Un posto – ha detto – dove i paesani miei sono dei bancomat viventi”, intendendo che da ciascuno era lecito ottenere un “fiore”, ovvero un pizzo, ma senza nemmeno chiederlo esplicitamente: erano loro stessi a rispondere spontaneamente a qualsiasi richiesta dell’allora boss del crotonese.

La “frode carosello” messa in piedi a Maranello, partiva dal transito, in più tappe e all’estero, di merce informatica e di materiale tecnologico, che infine tornava in Italia dove, per ogni somma investita, si contava un guadagno del 6 per cento. Non un semplice riciclaggio, quindi, ma un reinvestimento che secondo l’accusa era tutto a vantaggio del clan Arena.

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