Dodici posti di lavoro su ventitre non esisteranno più. Questo accadrà agli educatori professionali di Ivrea che sabato hanno indetto una riunione pubblica “di piazza”, resistendo a temperature polari, per spiegare ai passanti chi sono loro e quali sono i loro problemi.

Si sono ritrovate una cinquantina di persone provenienti da cooperative locali, da Torino, da Vercelli, da Novara, da Caluso, dal Canavese perché i tagli alle politiche sociali cominciano a far sentire il loro peso su tutta la regione. Davanti alla crisi economica le prime risorse che vengono fatte fuori sono quelle dedicate all’educativa. «Primo perché non si conosce il ruolo dell’educatore» spiega Nicole, un’educatrice quarantenne, madre di due figli che si ritrova dal 2 gennaio a essere senza lavoro. «Quando si parla di educatori viene subito in mente l’assistenza scolastica. Ma noi non siamo solo quello. L’educativa territoriale è cercare di rendere indipendenti delle persone con gravi difficoltà motorie, problemi di handicap o di dipendenze. Queste persone vengono inserite in progetti di accompagnamento che hanno il fine di renderle autonomi o perlomeno di renderle socialmente utili. Farle sentire vive, insomma».

I tagli della Regione Piemonte al welfare sono stati pesanti. E i servizi attivi devono continuare con la metà delle risorse. Se prima un operatore aveva 7-8 percorsi di accompagnamento da seguire, con i tagli potrebbe addirittura doverne seguire il doppio. «Sì, perché il servizio deve andare avanti – spiega Tiziana, un’altra educatrice e madre di famiglia lasciata a casa – dedicando meno tempo alle utenze e rendendo di fatto sterili i risultati di questo lavoro».

L’obiettivo dell’evento informativo organizzato nella centrale Piazza Ottinetti era anche un altro. E cioè quello di sensibilizzare gli altri educatori per mettersi in comune di fronte alle difficoltà. Tentativo, quello di far rete, già messo in pratica dal gruppo degli Operatori Sociali Non Dormienti, che da mesi ormai si ritrovano ogni quindici giorni davanti al palazzo della Regione a Torino dando vita a una riunione pubblica all’aperto con l’intento di conoscere altre figure professionali in difficoltà e studiare tutti insieme una linea di resistenza comune.

Ma tanti educatori rimangono ancora immobili, essendo soci delle cooperative in cui lavorano, e non possono far altro che rimanere appesi a un lavoro altalenante fatto a volte di turni di 18 ore per coprire la mancanza di personale, con prospettive poco rassicuranti per il futuro e poche gratificazioni. «Il nostro licenziamento ci è stato comunicato con una telefonata» protesta Domenique, altra mamma appena quarantenne licenziata il 2 gennaio. «I licenziamenti avvengono attraverso criteri interni, cioè a discrezione della cooperativa. Ad alcuni di noi è stato offerto di andare a lavorare a più di 40 chilometri di distanza. Ma come facciamo, con dei figli, con una famiglia, a prendere e spostarci per fare dei turni in un’altra città e con nessuna prospettiva? La verità è che la figura dell’educatore viene continuamente disconosciuta già dal momento dell’assunzione perché ti vengono richiesti dei titoli formativi universitari per percepire sette euro all’ora e per seguire dei casi che non sono di tua competenza. Io ad esempio ho lavorato per anni con le ragazze madri, poi mi hanno spostata a lavorare con i minori disabili. È come chiedere a un infermiere di fare il chirurgo. È la stessa cosa. Ma noi lo facciamo e ce la mettiamo tutta per farlo bene. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti».

E che questo lavoro sia fondamentale lo dice anche Mimma, madre di una bambina seguita dagli operatori: «Sono due anni che usufruisco di questo servizio e ora dovrò rivolgermi a una badante. Capite anche voi che non è la stessa cosa. Tutte quelle che finora sono state per mia figlia delle esperienze di vita costruttive in un ambito extra-familiare che a tutte le persone dovrebbe essere permesso, ora rischiano di non esserci più. Solo chi è dentro a questa situazione può capire davvero cosa comportano questi tagli».

Non ci sono ricorsi da fare contro il licenziamento, i sindacati non si esprimono e le cooperative che dovrebbero difendere i propri soci sono costrette a licenziarli. Un quadro chiaro e limpido della situazione lo fornisce Luca, che ha fatto più di cento chilometri per unirsi alla protesta: «Uno Stato che di fronte alle difficoltà va a sottrarre risorse ai più deboli, non può dirsi uno Stato civile».

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