Cassius Clay

Dicono che probabilmente non sia stato il miglior pugile di sempre. Meglio di lui, avrebbero fatto Sugar Ray Robinson e Joe Louis, leggende della boxe di ogni tempo. Dicono che sia stato un egocentrico con una grande passione per tutto ciò che gli ruotava intorno: lui re, gli altri semplici sudditi da tenere a bada con qualche banconota. Dicono anche che avrebbe dovuto ritirarsi quando ancora era un fuoriclasse del ring, invece di farsi prendere a ceffoni da colleghi che fino a qualche anno prima nemmeno avrebbero avuto il coraggio di avvicinarsi ai suoi guantoni. Perché lui, Muhammad Ali, già Cassius Clay prima della sua conversione all’Islam, si è fatto largo nella storia degli Stati Uniti a suon di pugni e di parole che hanno lasciato il segno. Oggi compie 70 anni e il mondo gli tributa un doveroso omaggio. Senza di lui, molti dei grandi cambiamenti sociali che hanno investito gli Usa (e dunque il pianeta) nel corso degli ultimi quarant’anni avrebbero assunto una forma diversa.

“I campioni non si fanno nelle palestre. I campioni si fanno con qualcosa che hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione”. Muhammad Ali aveva ben chiare le logiche che l’hanno accompagnato nel corso della sua lunga carriera. Il pugile di Louisville viveva il suo sogno con una determinazione impareggiabile. Per lui le difficoltà non rappresentavano ostacoli da guardare con timore e sospetto, piuttosto passaggi necessari per spingersi sempre un po’ più in là. Verso il meglio, verso il trionfo.

Ali era un campione prima ancora di diventarlo davvero. Era la sua visione, che girava a chi di dovere alla bisogna. Anche con liriche improvvisate colme di tritolo, come quella che dedicò ad un altro grandissimo, George Foreman, prima del memorabile match di Kinshasa del 30 ottobre 1974. “Ho fatto a botte con un coccodrillo, ho lottato con una balena, ho ammanettato i lampi, sbattuto in galera i tuoni. L’altra settimana ho ammazzato una roccia, ferito una pietra, spedito all’ospedale un mattone. Io mando in tilt la medicina”. Ali chiuse la pratica all’ottava ripresa, mandando Foreman al tappeto. Era uno spaccone, ‘The Greatest’, ma aveva pure un talento del diavolo a menare le mani con i guantoni. Una corazzata inaffondabile, fino alla fine.

L’epopea di Cassius Clay, cresciuto nello stato del Kentucky da ragazzo qualunque grazie ad una famiglia che faceva parte del ceto medio, inizia ufficialmente in Italia, alle Olimpiadi di Roma del 1960. Aveva diciotto anni, ma già un’esperienza di tutto rispetto nel circuito amatoriale a stelle e strisce. Buona la prima. Ali sale sul gradino più alto del podio, vince la medaglia d’oro. Fu il primo e unico incontro del pugile di Luisville in terra italiana. Da allora, gli appassionati di casa nostra seguirono le sue gesta soltanto in tv, sacrificando le notti per non perdersi le dirette d’Oltreoceano.

Cassius Clay divenne Muhammad Ali il 25 febbraio del 1964, il giorno dopo aver steso Sonny Liston e aver fatto sua la corona dei pesi massimi. Seguiva da vicino le battaglie di Malcom X, l’attivista che lottò per una vita a favore dei diritti degli afroamericani. Con la nuova identità, Ali scrisse le pagine di un racconto che ancora oggi affascina gli sportivi di tutto il mondo. Tre gli incontri che più di altri hanno segnato il suo percorso nell’Olimpo degli dei con i guantoni. Uno più avvicente e drammatico dell’altro.

Il primo porta la data dell’8 marzo 1971. A New York City, Ali incontra per la prima volta Joe Frazier, uno dei suoi rivali più agguerriti di sempre, uno dei pochissimi ad aver potuto vantarsi di aver messo sotto ‘The Greatest’. Il match è una lotta senza soluzione di continuità. Colpi su colpi, da una parte e dall’altra, ma nessuno che cade ko. Dopo 15 interminabili riprese, la giuria assegna il titolo a Frazier. E’ la prima sconfitta da pro di Ali. Un evento che fa rimanere di sasso gli Stati Uniti e che verrà ricordato come “The Fight of the Century“.

Il secondo ha luogo a migliaia di chilometri dagli Stati Uniti, a Kinshaha, in Congo. E’ il 30 ottobre del 1974, Ali si gioca il titolo contro il campione in carica George Foreman, uno dei migliori massimi di sempre, 40 vittorie e 0 sconfitte tra i professionisti prima dell’incontro con Alì. Un molosso, una tigre, un vincente. Se quello con Frazier era stato definito il match del secolo, questo passò agli annali come ‘il match del millennio’. Non ci fu storia. Ali stravinse, chiudendo la faccenda all’ottava ripresa per abbandono dell’avversario. Kinshasa tifava per lui, l’uomo della rivalsa del popolo nero negli Stati Uniti e nel mondo. Al grido di “Ali boma yè”, Ali uccidilo, ‘The Greatest’ conquistò per la seconda volta nella sua carriera il gradino più alto del podio.

Il terzo si celebra più o meno un anno dopo a Quezon City, nelle Filippine, ancora distanti dagli Usa. Ali vuole riprendersi la rivincita su Joe Frazier, che vuole il titolo che è convinto gli appartenga perché è il più forte. I due non si amano e si mandano parole di fuoco a mezzo stampa. L’incontro è organizzato da Don King, il manager ‘maneggione’ che qualche anno più tardi segnò il destino di Mike Tyson. Fu un’altra battaglia straordinaria. Che questa volta si aggiudicò Alì al gong che segnava l’inizio della quindicesima e ultima ripresa, perché Frazier era stato toccato troppo forte per capire dove si trovasse. Frazier è scomparso lo scorso novembre a 67 anni. C’era anche Ali al suo funerale. Nemici per una vita, fu il tributo di un grande campione al suo migliore rivale.

Si diceva dell’influenza di Ali nelle cose di casa America. Ecco l’esempio più eclatante della sua capacità di arringare le folle e di schierarsi contro la consuetudine del tempo. Nel 1967 rischiò il carcere per aver rifiutato la chiamata ad indossare l’uniforme degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam. “Conosco i Vietcong soltanto per quello che ci ha fatto vedere la televisione, comunque nessuno di loro mi ha mai dato pesantemente del negro, come invece accade nel mio Paese”, dichiarò davanti alla stampa. Venne sospeso dalle attività sportive e rimase fuori dai giochi per tre anni. Per molti, moltissimi soldati statunitensi impegnati sul campo di battaglia divenne un eroe.

Oggi Muhammad Ali compie 70 anni, ma non riuscirà a festeggiare come avrebbe voluto. Da trenta inverni combatte contro il morbo di Parkinson, che lo sta spegnendo poco alla volta, impedendogli i movimenti più elementari. Lui però non si è mai fermato. Ha continuato a tirare pugni contro il destino che prometteva di stenderlo in breve tempo. Ali continua a girare, a mostrarsi in pubblico, a raccogliere fondi per la fondazione che porta il suo nome e che si batte per i diritti dei più piccoli, e a farsi fotografare con tutti coloro che vogliono regalarsi una parentesi di storia. Le Olimpiadi di Atlanta del 1996 hanno segnato un’epoca. Perché il passo stentato e sofferente di Ali che avvicina la torcia al braciere che dà il via ai Giochi è la sintesi di un fuoriclasse che non ha mai avuto paura di affrontare le sfide dell’esistenza. Un campione senza tempo e senza età. Un esempio.

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