E’ andata come doveva andare, senza colpi di scena, senza ripensamenti. L’Unione europea contribuirà all’incremento delle risorse di emergenza presso il Fmi erogando il prima possibile 150 miliardi di euro con l’obiettivo di raggiungere al più presto quota 200. Uno sforzo supplementare, quest’ultimo, cui non parteciperà la Gran Bretagna, protagonista, ieri, dell’atteso e per molti scontato gran rifiuto. George Osborne, ministro delle finanze di Londra, lo aveva fatto capire in anticipo e prontamente ha mantenuto la promessa. I 30 miliardi di euro chiesti al Regno Unito restano dunque nelle casseforti di Sua Maestà mentre a sobbarcarsi le principali quote dello sforzo contributivo saranno ovviamente Germania (con 41,5 miliardi), Francia (31,4) e Italia (23,4). Risparmiate da ogni onere, e ci mancherebbe altro, Portogallo, Grecia e Irlanda.

Il rifiuto della Gran Bretagna, come si diceva, era nell’aria. Ma ora che la mancata adesione è cosa fatta si aprono per lo meno due differenti ordini di problemi. Il primo, ovviamente, è diplomatico e come tale rischia di esacerbare una spaccatura che è ormai divenuta guerra aperta. La posizione assunta dal premier Cameron contro il piano di unione fiscale aveva suscitato inizialmente qualche perplessità persino in patria. Il vice Nick Clegg aveva addirittura avanzato le sue critiche salvo poi tornare nei ranghi. Perché? Per il semplice fatto, almeno così pare di intuire, che a ritrovarsi isolato rischiava di essere in definitiva proprio lui. Mentre il Continente masticava amaro, una buona parte della stampa britannica sceglieva di schierarsi a fianco del primo ministro difendendo una scelta volta a tutelare gli interessi della City. E se persino il Sunday Times arriva a rivelare l’esistenza di un piano di emergenza per l’evacuazione dei cittadini britannici residenti in Spagna e Portogallo in caso di default della penisola iberica, significa per lo meno una cosa: ovvero che Londra non è disposta ad escludere nessuna ipotesi di catastrofe.

La seconda questione è invece estremamente pratica. Trovare i 50 miliardi mancanti da donatori esterni all’eurozona non sarà così facile. Gli Stati Uniti, come noto, non ci stanno. Oggi, il ministro delle finanze di Berlino Wolfgang Schaeuble ha chiarito il concetto precisando, in un’intervista concessa a una radio tedesca, che “non c’è alcuna possibilità” che il Congresso dia il via libera a una simile operazione da parte della Casa Bianca. Chiamare in causa i grandi mercati emergenti è teoricamente possibile, ma il problema è che questi ultimi vorranno certamente qualcosa in cambio (magari qualche legittima concessione al Wto), con il rischio di aprire le porte a negoziati lunghi per non dire logoranti. Restano la Scandinavia e l’Europa dell’Est (o per meglio dire parte di essa) per le quali, comunque, lo sforzo resta notevole.

I guai dell’Europa, nel frattempo, si evidenziano in modo chiaro nella spirale di una crisi creditizia che, dopo aver martellato senza tregua sul fronte del debito sovrano, coinvolge ora l’intero sistema bancario. I depositi mantenuti dagli istituti privati presso la Bce sono prossimi al record storico post Lehman, evidenziando così una sfiducia permanente sul breve periodo. Le banche, in altre parole, preferiscono tenere il denaro fermo nelle casse di Eurotower accontentandosi di rendimenti trascurabili piuttosto che rimetterlo in circolo nel sistema. Un fenomeno che è causa ed effetto allo stesso tempo del vento recessivo che spira sempre più minacciosamente in Europa.

Che la paura sia evidente, di fatto, lo ammette ormai anche Mario Draghi, uno che alla diplomazia non rinuncia mai ma che pure, al tempo stesso, non riesce più a nascondere la profonda inquietudine che lo tormenta. Emblematica, in tal senso, l’intervista concessa ieri al Financial Times nella quale il presidente della Bce ha parlato anche del possibile collasso di Eurolandia. Certo, l’ex numero uno di Bankitalia ha parlato per ipotesi, limitandosi ad evidenziare i costi micidiali che un simile evento produrrebbe e ribadendo l’impegno della banca centrale europea per prevenire questo scenario, ma la sua analisi rappresenta comunque una novità sostanziale nella storia della Bce. Jean-Claude Trichet, il suo predecessore, aveva sempre definito questo scenario “assurdo”, rifiutandosi categoricamente di prenderlo anche solo teoricamente in esame. Il fatto che il presidente della principale istituzione finanziaria europea discuta ora apertamente dei costi (inflazione in primis)di un simile evento distruttivo spiega di per sé molto circa il clima attuale che caratterizza l’Unione europea.

Ad accrescere l’incertezza sul futuro dell’euro, inoltre, ci ha pensato venerdì scorso l’agenzia di rating Fitch che ha messo sotto osservazione Italia, Spagna, Belgio, Slovenia, Cipro e Irlanda ipotizzando un declassamento del giudizio sovrano nel prossimo futuro così come per la Francia, cui la stessa agenzia ha abbassato l’outlook a “negativo”. A spaventare l’Europa c’è soprattutto il rischio di un taglio della tripla A francese, un’ipotesi che circola ormai da tempo e che i è trasformata in una sempre più incombente spada di Damocle sulla testa della seconda economia dell’Eurozona. Qualcuno, si mormora, pronostica che il fatidico annuncio arriverà già questo venerdì. Giusto in tempo per augurare buon Natale ai francesi alla chiusura delle contrattazioni.

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