Massimo Moratti festeggia lo scudetto del Triplete

Dodici partite giocate, più sconfitte che vittorie (6 contro 4), più gol subiti che fatti (18 contro 14). Tradotto: appena quattordici punti in classifica, a sole quattro lunghezze dalla Serie B, in compagnia di Bologna e Siena, doppiati dalla Juve, tredici punti in meno dei cugini del Milan. La statistica è impietosa: mai così male dal 1947. Sono i numeri a delineare la gravità dell’odierna situazione dell’Inter, alle prese con una crisi di gioco e risultati che nella recente storia della Milano nerazzurra riporta alla memoria l’era grigia del pre-Mancini. Il rischio, però, è che il lato destro della graduatoria di Serie A acuisca un’altro tipo di crisi: quella d’identità.

I numeri, infatti, dicono tanto ma non tutto. Non dicono, ad esempio, di una squadra nata male e assemblata peggio, di una condizione fisica disastrosa (troppi infortuni e avversari di turno che corrono il doppio), di un ambiente svegliatosi dall’indigestione del triplete e ora alle prese con un incubo. Che non è la serie cadetta, ci mancherebbe, bensì l’eventualità di rimanere fuori dal giro che conta. In soldoni, non qualificarsi alla maggiore competizione europea per club significherebbe dire addio a introiti milionari, ipotesi che la società non vuole neanche prendere in considerazione. Le contromosse, però, rischiano di essere peggiori della situazione attuale. In molti, del resto, invocano forti investimenti nel mercato di gennaio, magari per acquistare campioni già pronti e provare una rimonta che avrebbe dell’incredibile. Il rischio di una simile operazione, però, è altissimo per almeno due motivi: non è detto che il Tevez di turno risolva tutti i (tantissimi) problemi dell’Inter e, soprattutto, in caso di fallimento le ripercussioni economiche (ennesimo stipendio pesante a bilancio) sarebbero disastrose per le casse di una società che, dopo l’era Mourinho, aveva deciso di anticipare l’attuazione del fair play finanziario. Il tutto con buona pace di Rafa Benitez, che ha raccolto non solo la pesante eredità dello Special One, ma anche una rosa sazia di vittorie e che per questo andava potenziata con forze fresche. L’allenatore spagnolo non le ha mai ottenute, il suo successore Leonardo le ha utilizzate solo per pochi mesi, ovvero fino a quando non ha deciso di accettare la sontuosa offerta in petrodollari del Paris Saint Germain, lasciando così il ‘progetto-Inter’ a metà.

Sta proprio in questi cambi di rotta repentini da parte dello staff di Massimo Moratti l’origine di quello che sta vivendo oggi l’Inter. Salutato Mourinho, era necessario non rifondare, ma quantomeno ‘rinfrescare’. E’ stato fatto, ma con un ritardo tale da mettere in dubbio anche la bontà di investimenti a colpo sicuro (Pazzini su tutti). Quando poi sembrava che la strada intrapresa fosse di nuovo quella giusta (con Leonardo in panca), è arrivato l’addio del trainer brasiliano. In quel momento, serviva un colpo di spugna: investire su un fuoriclasse della panchina, mantenere i campioni utili al progetto, acquistare prospetti di top player. E’ stato fatto solo in parte. La società ha perso mesi per individuare l’allenatore giusto, dopo troppi ‘grazie, ma non posso’ ha optato per Gasperini, quest’ultimo non ha potuto programmare il mercato e quando si è realizzato il colpaccio Eto’o (ceduto a cifre fuori mercato), parte degli introiti sono stati utilizzati per portare alla Pinetina gente come Forlan (non più un ragazzino) e Zarate (un’ombra alla Lazio). Ovvero: comprare nomi di grido (ma di dubbia utilità) per far digerire l’addio di uno dei beniamini del pubblico. Una scelta di pancia che si sta rivelando sbagliata: il fantasista argentino è sui rendimenti laziali (bassissimi), l’attaccante uruguaiano si è infortunato subito e ancor prima di lui la dirigenza, convinta di poterlo schierare in Champions. Peccato, però, che Forlan avesse già disputato una gara europea con la maglia dell’Atletico Madrid: un errore intollerabile a questi livelli.

La confusione societaria, a questo punto, è diventata cronica: in mancanza di risultati, Gasperini ha pagato per tutti. Al suo posto è stato ingaggiato Claudio Ranieri, profilo in completa controtendenza con le scelte estive. Altro che rinnovamento, altro che stagione nuova: i giocatori si sono trovati a mettere in pratica due tipologie di gioco in pochi mesi e i risultati sono sotto gli occhi di tutti (al pari di una condizione fisica che risente di una preparazione estiva quantomeno discutibile). Nonostante ciò, l’allenatore romano ha vinto ‘d’esperienza’ il non impossibile (eufemismo) girone di Champions, ma è stato incapace di dare una svolta al cammino in campionato e, soprattutto, nel gioco e nella filosofia della sua squadra, slegata e senza idee come quella di Gasperini. Inutile nasconderlo: ora rischia anche lui, e il summit di sabato scorso tra Moratti e Branca dopo la sconfitta interna con l’Udinese è lì a confermarlo. L’ennesimo cambio ‘di manico’ a metà stagione, però, sarebbe il più tragicomico degli errori: la squadra sarebbe ancor più disorientata, i risultati tutt’altro che al sicuro, il bilancio ancor più in rosso. Occorrono, al contrario, scelte sagge e di prospettiva: insistere con Ranieri (che non è l’ultimo arrivato: con lui il terzo posto è ampiamente alla portata dei nerazzurri), puntare ad andare avanti in Champions, vendere il vendibile (Milito allo Schalke 04 e gli altri top player a chi mette più soldi sul tavolo) e con quei soldi programmare con largo anticipo la prossima stagione. Quella del rilancio definitivo.

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