Mi ha lasciato fortemente perplesso il commissariamento italiano da parte dell’ Unione Europea, che dunque ci presenta la lista dei compiti da fare e affida al Fondo Monetario Internazionale, non si sa con quali reali connotati, la sorveglianza sui nostri conti traballanti.

E’  ben chiaro che la stagnazione politica, la mancanza di una qualsivoglia progettualità, e l’ambiguità sui conti pubblici, nel corso degli anni,  hanno prodotto la fragilità che oggi fa dell’ Italia un paese folle, incapace di intendere e volere.

Quello che avviene così è la sostituzione di un potere tecnico al potere politico. Chi controlla questo processo? Sia chiaro che non si vuole qui banalizzare oltremodo. La democrazia rappresentativa ha mostrato proprio in Italia deformazioni insostenibili.

La nostra crisi è oggi anche determinata dall’insistita incapacità del governo di prendere decisioni forti, nel condizionamento di una probabile tornata elettorale. L’interesse di “casta” e un po’ di facile populismo, spesso prevalgono sulle ragioni reali dell’economia e della collettività e questo nessuno può permetterselo. Aggiungiamo poi a tutto questo, uno zoccolo duro di inguaribile incompetenza, e la ricetta del disastro è completa.

Così a contrario, si potrebbe, sostenere che un “governo” di tecnici può essere libero di agire unicamente sulla scorta di pianificazioni economiche ben determinate, operando quelle riforme che il governo democraticamente eletto non riesce oggi a ottenere. Ma anche volendo accettare tutto questo, tuttavia, il peso allo stomaco rimane indigeribile: chi legittima le scelte così compiute? Chi risponde se quelle scelte si rivelano sbagliate? Quale collettività ha consegnato questa sovranità?

Perché se la nostra crisi è colpa anche di un governo,  è anche vero che questo assetto è stato determinato democraticamente sulla scorta di un mandato popolare: siamo tutti, in qualche modo, responsabili di aver costruito un Italia fallimentare.

La stessa cosa non la si può dire riguardo alle politiche “suggerite” della Banca Centrale o del FMI. Se è vero che, secondo la Costituzione italiana, la sovranità appartiene al popolo, sembra che la crisi economica, gettata nel quadro di un Europa interconnessa, porti di fatto a un sistematico allentamento di maglie nel canone della legittimazione popolare del potere politico. Il problema non è nuovo.

L’Europa come oggi concepita non è nata certo per manifesta volontà dei popoli europei. Nel Manifesto di Ventotene , Altiero Spinelli aveva ben chiaro il fattore disgregante degli egoismi nazionali e la necessità del supermento degli Stati Nazione, incapaci di una visione d’insieme. Si poneva in quel ottica  la necessità di una rifondazione politica, e a tal riguardo veniva considerata essenziale la formazione di una voce capace di spiegare e sostenere le istanze europeiste. In luce delle tante difficoltà di costruzione democratico-consensuale dell’ Europa, si optò talvolta per veri salti nel buio, orientati dalla massima “unire i portafogli per unire i cuori”.

Così iniziò la condivisione di risorse e regole che ha portato da ultimo al Trattato di Lisbona.

Sia detto che nulla ci è stato imposto. Le regole comunitarie le abbiamo volute noi, e il loro ingresso nel nostro ordinamento avviene pur sempre passando dalla nostra Costituzione. L’organismo europeo ha preso nel tempo una vitalità inaspettata, e ha prodotto grandi e spesso positivi cambiamenti,  ma è ancora più fragile laddove dovrebbe essere più forte: manca di consenso popolare e di questo sembra avere terribilmente paura.

Ne sia conferma il panico scatenato dalla proposta di referendum in Grecia. Così, più l’ Europa stringe le sue maglie, meno sembra fidarsi degli strumenti democratici. Il che non può non far riflettere.

Fra i motivi di tanta paura ve ne è uno abbastanza palese e poco considerato: nessuno ha mai spiegato l’ Europa agli europei. Un partito veramente europeista non si è mai sviluppato, e la mancanza di classi politiche all’altezza del compito che la storia richiede, ha favorito anzi la crescita di populismi e pericolose estremizzazioni nazionaliste. L’ Europa è un entità complessa, ed è complessa la sua narrazione.

Preso atto anche di questo, non si può però negare che l’ Europa comunitaria sia in certa misura una chimera fondata su dogmi di funzionalità sottratti spesso a qualsiasi dibattito. In Germania, un grande intellettuale si è scagliato aspramente “contro la politica autoritaria e autoreferenziale dei burocrati di Bruxelles o dei banchieri centrali di Francoforte”.

La critica brucia, ma fa riflettere anche a un convinto europeista come me. Mi sembra difficilmente accettabile un sistema Europa che mentre insiste a regolare ogni aspetto della vita, dai piccoli ai grandi dettagli, attraverso continue regolamentazioni e direttive, dall’altro si allontana progressivamente dalla base popolare, disinteressandosi degli strumenti democratici. Ad oggi, l’unico organo europeo espressione di una diretta investitura popolare è il Parlamento di Bruxelles, dove ho lavorato; una vetrina festosa, incapace però di esprimere una forza reale nei processi di formazione della volontà europea.

Eppure, vivendo a Bruxelles, ho anche sentito l’ Europa come qualcosa di vivo e concreto. Romanticamente, posso dire quello che sento di europeo in me; vicinanza nei problemi, nei desideri, nella cultura, nei modi di vivere dei ragazzi di Riga come di Madrid. Una consapevolezza che forse è nella sostanza l’unico buon terreno sui cui seminare. Se l’ Unione deve capire cosa può e vuole essere, può farlo solo chiedendone verità a tutti quelli che l’ Europa la vivono e la vivranno.

Un’Europa tecnocratica, priva di politiche sociali oltre che schiettamente economiche, chiusa nei suoi uffici, rischia davvero di vivere sul filo di un rasoio tagliente, che non potrà ancora pensare di saltare  con insostenibili vuoti di democrazia senza versarsi addosso fiumi di ostilità opposte e contrarie. E questo, sia chiaro, lo dico pur nella convinzione che gli Stati nazione, senza l’ Europa, rappresentino entità di una fragilità estrema,con o senza l’ Euro di mezzo.

A riguardo, mi tornano in mente le Poleis greche,  piccole realtà fiorenti e avanzatissime, sconfitte da una forza emergente perché incapaci di organizzarsi in una politica comune. Allora, il nostro mondo coincideva con il Mediterraneo, oggi mare dei problemi,  e la parola Europa indicava “le terre oltre Creta”.

Oggi lo scenario è il mondo stesso, gli imperi sono gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, l’ India e il Brasile, o ancora i grandi gruppi di interesse, i colossi multinazionali, le grandi lobby finanziarie. In quest’ottica, la debolezza delle collettività europee risiede proprio nell’incapacità di un’azione unitaria.

Ma se anche fosse nel potenziamento definitivo dell’ Unione l’unica vera svolta necessaria, è impensabile che questo possa avvenire senza un diffuso e concreto sostanziamento democratico che rappresenta oggi come mai un decisivo argomento di definizione dei futuri scenari del vecchio continente.

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