Un enorme aquilone si è alzato oggi nel cielo nuvoloso di Londra, davanti alla sede del Parlamento britannico, a Westminster. Attorno all’aquilone, alcune decine di manifestanti con un cartello: “Afghanistan, 10. Time to get it right”. Più o meno: Afghanistan, 10 anni dopo è tempo di raddrizzare le cose.

Manifestazioni simili si sono svolte in altre capitali europee, come Parigi, Berlino, L’Aja, Oslo e Stoccoloma. L’iniziativa simbolica è stata organizzata da un ampio network di Ong europee presenti in Afghanistan, preoccupate come le loro controparti in loco, che il ritiro delle truppe previsto a partire dal 2014 possa preludere al completo disinteresse della comunità internazionale per le sorti dei cittadini afgani. Che insomma, dieci anni di guerra e intervento internazionale, iniziati con i bombardamenti statunitensi il 7 ottobre del 2001, possano essere passati invano.

La richiesta delle Ong europee ed afgane (in totale un cartello che riunisce circa 120 organizzazioni) è che il Paese, i suoi cittadini, non vengano abbandonati e che la strategia internazionale cambi: dall’intervento militare massiccio e spesso devastante per i civili, alla ricostruzione sociale, economica e civile di un paese esausto dopo tre decenni e più di guerre ininterrotte.

“Nei dieci anni passati dalla caduta del regime dei talebani, miliardi dollari sono stati spesi nel Paese – scrivono sul sito web Together Afghanistan alcune delle organizzazioni coinvolte nella campagna – L’aiuto internazionale ha cambiato qualcosa: ci sono più strade, più scuole, più ospedali di prima. Eppure, l’Afghanistan è ancora classificato come uno dei paesi più poveri e meno sviluppati del mondo”.

Le ragioni di questo fallimento sono complesse: corruzione, appoggio internazionale a discutibili signori della guerra che sono stati capaci di riciclarsi nel nuovo clima politico, attenzione quasi esclusiva agli aspetti militari della sicurezza, violenza. Ma quello che chiedono le Ong è che si parta con un nuovo approccio, molto lontano sia dalle preoccupazioni muscolari dei comandi Nato (l’Alleanza ha annunciato per i prossimi giorni un nuovo piano strategico), sia dalle manovre iper-politiche del governo del presidente Hamid Karzai. “Un approccio che assicuri che gli aiuti internazionali vadano a vantaggio degli afgani e sul lungo periodo – scrivono ancora le Ong – Un approccio che protegga i diritti, i civili e la dignità individuale; un approccio che porti a una giusta e stabile pace nel paese che possa essere accettata da tutti gli afgani”.

Queste richieste, accompagnate da dati raccolti sul campo, come quelli contenuti nella ricerca diffusa ieri da Acbar, un coordinamento di oltre 110 organizzazioni internazionali e afgane, sullo stato dei servizi basici in Afghanistan, saranno portate all’attenzione dei governi e delle agenzie internazionali che si riuniranno il 5 dicembre a Bonn, nella conferenza internazionale sul futuro del Paese.

Lo stesso presidente Karzai, in un’intervista alla Bbc, ha ammesso i fallimenti del suo governo e della coalizione internazionale: “Quello che dovremmo fare è fornire ai cittadini afgani un ambiente più sicuro – ha detto il presidente – Il governo afgano e la comunità internazionale hanno certamente fallito da questo punto di vista”.

Con la prospettiva della Transition strategy – la progressiva estensione del controllo del paese e delle responsabilità di sicurezza alle truppe afgane da parte della Nato – e con quella del ritiro a partire dal 2014, c’è il rischio che il fallimento significhi un ritorno dei talebani al potere o una nuova guerra civile come quella che ha dilaniato il paese dopo il ritiro dei sovietici. Per questo, dicono le Ong di Together Afghanistan e le altre impegnate nel lavoro di ricostruzione sul campo, è tempo di “mettere le cose a posto” e orientare l’aiuto internazionale verso la ricostruzione civile e la tutela dei diritti, a partire da quelli delle donne. È il solo modo per evitare che dietro l’ultimo soldato rimanga solo un campo di macerie.

di Joseph Zarlingo

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