Più di cento studenti e studentesse affollano la classe durante le mie lezioni in università, e mi è capitato nei giorni passati di far loro una domanda. Sapete chi è Jamey Rodemeyer? Solo una ragazza, straniera, credo americana, sapeva chi fosse.

Jamey Rodemeyer era un ragazzino di 14 anni di Buffalo, nell’upper State di New York, quella parte così geograficamente lontana dalla New York liberale da sembrare più simile all’Idaho che allo Stato dei matrimoni gay. Jamey si è suicidato il 19 settembre scorso dopo aver denunciato i soprusi e le persecuzioni subite dai compagni di scuola e dai coetanei. L’ha fatto su YouTube, con un video che si concludeva con una frase di incoraggiamento: “It gets better, I promise!“, andrà meglio, lo prometto.

E invece no, meglio non andava, e non sono passati neppure dieci giorni da quel video che Jamey è scomparso.

Ora nessuno potrà più prenderlo in giro perché esce solo con le sue compagne di classe e snobba invece i ragazzi. Perché in una data precisa (“December 2010“, dice) si è scoperto bisessuale e si è accorto che attorno a lui vi era un mondo ostile, ove ogni segno di cedimento rispetto a ciò che è considerato “normale” rappresenta un’offesa per qualcuno, ove crescere mentre si è considerati “diversi” non è vita, ma un’infinita corsa ad ostacoli.

Del filmato di Jamey mi ha colpito proprio quella data. Come se vi fosse, come in effetti c’è, un prima e un dopo nello scoprirsi e nel dichiararsi omosessuali. Questo prima-e-dopo dà la contezza di cosa significhi dichiararsi (o non dichiararsi). Non sempre si tratta di una liberazione, non per Jamey almeno.

Non mi ha stupito per niente, invece, il fatto che nessuno nella mia classe conoscesse la storia di Jamey. E la ragione è che i nostri telegiornali non ne hanno parlato. Uno che l’ha fatto è – come denuncia l’amico Andrea Tornese in un suo post-lettera di qualche giorno fa – il patetico Studio Aperto, che, in un suo servizio inserito tra la storia del cane abbandonato in autostrada e quella del coccodrillo dell’Amazzonia che riesce a dire “mamma” (sono ironico, ovviamente), è riuscito a non citare neanche una volta, in due minuti, la parola “omosessuale” o “gay”. Secondo loro, Jamey veniva preso in giro così, senza ragione. Lady Gaga gli avrebbe rivolto una dedica, commossa, “perchè Jamey non ce l’ha fatta“. Non ce l’ha fatta grazie alle persecuzioni che subiva, e grazie anche alla censura, proprio come quella di Studio Aperto, che altro non è se non una forma di persecuzione.

Quando sento parlare di storie come quella di Jamey mi domando cosa abbiano in mente i nostri politici quando sentono la parola “omofobia”. E capisco cosa significhi morire due volte: una prima volta fisicamente e una seconda accorgendoti che il messaggio che hai lasciato poco prima di morire non solo resta inascoltato, ma viene dolosamente nascosto al pubblico.

Se c’è una brutta pagina del giornalismo odierno, è proprio questa.

Per fortuna, prima o poi, it gets better.

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