La sanguinosa repressione di Hama non è bastata a fermare le proteste in Siria. Secondo l’emittente panaraba Al Jazeera, infatti, decine di migliaia di persone hanno manifestato anche oggi, primo venerdì di Ramadan, all’uscita dalla preghiera di mezzogiorno. Da Damasco a Daraa, nel sud, fino a Deir ez-Zoor, nell’est del paese, l’uscita dalle moschee si è trasformata in cortei contro il regime del presidente Bashar Assad. Ieri il presidente aveva emanato il decreto per aprire il sistema politico siriano al multipartitismo, rompendo il monopolio del partito Ba’ath, in vigore dal 1963 (Leggi). I gruppi di opposizione, però, hanno bollato questa apertura come insufficiente, spalleggiati dalla diplomazia internazionale. Il ministro degli esteri francese Alain Juppe, per esempio, ha definito il decreto di Assad «quasi una provocazione».

Da Hama, dove sono stati parzialmente ripristinati i collegamenti telefonici, arrivano racconti micidiali della repressione, che in cinque giorni ha causato forse 150 morti (250 secondo altre fonti), di cui 45 nell’assalto al centro della città e a piazza Oronte, l’epicentro delle manifestazioni antiregime delle settimane scorse. Secondo alcuni testimoni, citati dall’agenzia Associated Press, ci sono in città unità paramilitari che cercano gli oppositori del regime casa per casa e il cibo è stato razionato in molte zone della città, a partire dal quartiere di Al Hadar, cuore della rivolta islamista che nel 1982 venne stroncata dal padre di Bashar, Hafez, dopo settimane di combattimenti e al prezzo di almeno 20 mila morti.

La tv di stato di siriana ha mostrato un servizio da Hama in cui si vedono le strade della città, che ha circa 700 mila abitanti, completamente deserte, piene di detriti e dei resti delle barricate improvvisate montate dai cittadini per cercare di fermare i carri armati. Secondo la tv di stato, venti soldati sono stati uccisi nelle operazioni «per riportare la città alla vita normale» e nel servizio si vedono immagini di quelli che sono ribelli armati. Una prova, secondo Damasco, della presenza di «gruppi armati» tra i cittadini che manifestano contro il regime.

È una tesi che però non viene condivisa e dopo la dichiarazione del presidente del Consiglio di sicurezza dell’Onu, frutto di un delicato compromesso tra i paesi membri del Consiglio, che ha condannato le violenze in Siria, oggi è stata di nuovo Hillary Clinton a parlare contro Assad. Fino a non molto tempo fa, Washington aveva evitato di chiedere che Assad lasciasse il potere – e Barack Obama ancora non lo ha fatto – ma adesso, dopo Hama, le idee sono cambiate. Già durante la discussione all’Onu, gli Usa avevano indicato che Assad «è la causa dell’instabilità in Siria». Clinton, durante una conferenza stampa a Washington, ha alzato il tiro: «Il presidente Assad ha perso la sua legittimità a governare i siriani – ha detto Clinton – Noi continueremo ad appoggiare i siriani e stiamo lavorando in continuazione per aggregare quanto più consenso internazionale possibile per ulteriori e più decise azioni contro il regime siriano». Clinton ha aggiunto che secondo Washington i morti nella repressione in Siria sono ormai più di 2000.

Nonostante l’atteggiamento tenuto all’Onu, anche da Mosca arrivano segnali di insofferenza verso l’antico amico. In un’intervista alla tv russa, il presidente Dimitri Medvedev ha espresso «enorme preoccupazione» per l’alto numero di vite umane perdute. Assad, secondo il presidente russo, deve «realizzare riforme urgenti, trovare un accordo con l’opposizione, riportare la calma e modernizzare lo stato». «Se non ci riesce, lo aspetta un triste destino – ha concluso Medvedev – Alla fine dovremo prendere delle decisioni. Guardiamo e aspettiamo di capire come evolve la situazione, se cambia, anche alcune delle nostre prospettive potrebbero cambiare». E’ il primo esplicito avviso che arriva dal Cremlino. Ed è un avviso che Damasco non può ignorare, soprattutto perché la Germania ha chiesto all’Onu di nominare rapidamente un inviato speciale da mandare in Siria per cercare una via d’uscita, ancora politica, a una crisi che ha causato già fin troppi morti.

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