Il giornalista Lirio Abbate

“Sai cosa volevo fare da giovane? Il cronista sportivo”. Invece sono quattro anni che vive sotto scorta. La mafia lo vuole uccidere, vuole eliminare Lirio Abbate per quello che ha scritto e continua a scrivere, prima all’Ansa, poi nel libro “I complici” (con Peter Gomez) e ora sull’Espresso. L’ultimo avvertimento l’ha svelato La Stampa su un’indagine della procura di Messina per un progetto di attentato di Cosa nostra e ‘Ndrangheta contro “quel giornalista”. Lirio sfoglia distrattamente il giornale, legge la notizia. Non appare stupito. Se possibile, sembra abituato: “È che in parte già lo sapevo, ero stato avvertito dalle forze dell’ordine: sono bravissime a prevenire e intervenire. E comunque è ‘solo’ l’ennesimo avvertimento-minaccia contro di me, sia a Palemmo (ci tiene a mantenere una lieve inflessione isolana), sia a Roma…”.

Come è iniziato tutto?
Quando la squadra mobile di Palermo ha scoperto l’intenzione di un gruppo di Brancaccio di farmi fuori.

In quel periodo di cosa ti occupavi?
Di più cose, su più fronti. Come sempre. Però ho capito una cosa…

Quale?
Che in Sicilia gli investigatori sono in grado di svelare le mosse dei mafiosi. Vedi, rispetto al passato quando ci furono giornalisti ammazzati dalle mafie, oggi possiedono gli strumenti e l’esperienza per contrastare.

Quanti e quali segnali di pericolo hai subito?
Ti faccio un esempio: dopo le prime minacce, ritennero opportuno allontanarmi dalla Sicilia. Andai a Roma, ma dopo qualche mese tornai a Palermo. Pochi giorno trovarono un ordigno in un’auto parcheggiata sotto casa.

Poi ci fu l’episodio con Leoluca Bagarella.
Impressionante, quanto inedito. Durante un processo, chiese di poter rilasciare delle dichiarazioni. E mi attaccò personalmente.

Ti ricordi cosa disse?
Eccome, ma non è il caso di ripetere le parole esatte.

Perché Bagarella ce l’aveva con te?
Avevo svelato l’assetto di Cosa Nostra in quel periodo, gli accordi, le nuove strategie maturate in carcere tra i corleonesi e i catanesi. Ma il problema era un altro: Bagarella, dal 41-bis, sapeva cosa scriveva l’Ansa e chi era l’autore.

Si interessava di informazione?
Eccome. Per loro è molto più importante quello che pubblicano i giornali di un avviso di garanzia o di una condanna, ergastolo escluso. Per Provenzano o Riina non è grave sentirsi definire ‘mafiosi’, anzi è un titolo di orgoglio, di riconoscimento. Il problema nasce quando gli sputtani il consulente o il manager complice con il quale fa affari. Quando tocchi i ‘colletti bianchi’, gli insospettabili. Quando arrivi alla zona grigia, quella inesplorata fino a pochi anni fa. E fai i nomi.

Tra le persone indicate da Brusca come “eliminabili”, c’è anche il tuo editore, Carlo De Benedetti.
Fa capire ancora di più quanto i boss tengano all’informazione. Immagina cosa potrebbe essere l’Italia senza le notizie che riportano il Fatto, Repubblica o l’Espresso.

Dalla mafia classica, si è passati a denunciare quella in giacca e cravatta. Qual è il prossimo passo?
La politica: dalla pubblica amministrazione al Parlamento. Cosa Nostra ha messo la sicura ai kalashnikov, punta ad altro e di esempi ne abbiamo molti, troppi.

Ma in quest’ultimo periodo la politica celebra la cattura di molti latitanti eccellenti…
Vedo altro.

Cosa?
Che racconto che un politico è in contatto con i mafiosi e questi parlano bene di lui; che anche i collaboratori fanno il suo nome e quindi viene indagato; se racconto le cene, gli incontri con i boss e così via, non succede niente. Anzi, leggo di un presidente del Consiglio che lo chiama e gli dice: ‘Bravo, hai tutti i numeri per diventare ministro’.

Purtroppo non è una favola…
È quello che accade nel nostro Paese in questi giorni. Basta vedere la nomina all’Agricoltura di Romano: un chiaro segnale ai mafiosi.

È possibile abituarsi a una vita sotto scorta?
All’inizio mi vergognavo. A volte mi capita ancora. Poi penso che c’è gente che non conosco, come Bagarella, che può decidere della mia vita. E scopro che, se vogliono, mi possono raggiungere ovunque e comunque. Comunque in alcuni momenti non si può non aver paura.

Ti sei mai pentito della scelta professionale?
Volevo fare il cronista sportivo, come ti ho detto. Poi ho trovato dei bravi maestri che mi hanno insegnato cos’è il giornalismo in Sicilia, e penso a Lucio Galluzzo, ma anche alla lezione di Mario Francese, Pippo Fava, Mauro Rostagno. Colleghi ammazzati dalla mafia.

Chi altro?
La famiglia Impastato, la memoria di Peppino, il rapporto con Giovanni, con la mamma Felicia che ora non c’è più.

Vedi una fine a tutto questo?
Per forza. Non si può vivere in eterno così.

da Il Fatto Quotidiano del 29 marzo 2011

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