La notizia è di pochi giorni fa, ma non ha goduto di grande luce mediatica, se non fra gli addetti ai lavori. Un effetto immediato però lo ha avuto ed è quello di avere fatto fare un bel salto in borsa al titolo Saipem, che ha toccato il suo massimo annuo a 35 euro.

Si tratta del succoso contratto che la società di ingegneria dell’Eni ha comunicato il 3 dicembre di essersi aggiudicata in Canada. Una commessa da 750 milioni di euro circa per la progettazione e costruzione di uno stabilimento per l’estrazione di petrolio da sabbie bituminose in Alberta in Canada. Committente la società Husky Oil.

La scarsa ribalta mediatica forse può essere motivata con il fatto che le sabbie bituminose in effetti risultano sconosciute ai più. Si tratta infatti di un mix di argille, sabbie, acque e bitumi, chiamate anche “tar sands” o “oil sands” da cui, dopo una serie di lavorazioni, può essere ricavato petrolio grezzo. Una risorsa che ha cominciato a essere studiata man mano che i giacimenti tradizionali hanno cominciato a scarseggiare.

Per farla breve parliamo di una sorta di fanghiglia che va lavata con getti di vapore bollente per separare il petrolio dalla terra e dall’acqua. Tutto ciò con effetti pesanti sulle aree interessate, a partire dal disboscamento, fino ad arrivare alla grande mole di acque di lavorazione che devono essere stoccate in particolari bacini.

Gli impianti per questo tipo di estrazione da anni si trovano al centro di una battaglia fra ambientalisti, ong, studiosi, autorità e società produttrici. In Canada, dove si trovano le maggiori riserve mondiali di tar sands, insieme al Venezuela, ogni giorno ne vengono estratti 1 milione di barili di petrolio.

Inoltre le operazioni sono molto costose. Infinitamente costose rispetto al petrolio convenzionale, tanto che sono giustificabili solo se il prezzo del greggio rimane alto. “Il progetto si regge sul fatto che il petrolio deve restare di base sopra gli 80 dollari al barile – spiega al il fattoquotidiano.it Maurizio Mazziero, analista finanziario indipendente specializzato in materie prime – naturalmente poi il tutto dipende anche dall’efficienza. Gli impatti ambientali inoltre sono forti e il dispendio energetico alto”. Di questo tuttavia non si dovrà occupare Saipem, che consegnerà l’impianto chiavi in mano.

“Quanto più si alzerà il prezzo del petrolio nei prossimi anni – continua l’analista – e io credo che potrebbe andare sulle tre cifre, tanto più queste risorse verranno utilizzate. Quello che ad esempio possiamo notare se guardiamo la curva dei futures sul petrolio, ora rispetto a pochi mesi fa, è che si sta appiattendo. Il che significa che fra poco comprare un contratto che mi permette di essere proprietario di un barile nel 2011 o comprarlo a pronti, cioè subito, sarà sostanzialmente lo stesso. E questo vuol dire che l’equilibrio fra domanda e offerta sta cambiando”.

Quella di cui si occuperà l’Eni è la prima fase di un progetto chiamato Sunrise Oil Sands, che prevede lo sfruttamento delle sabbie localizzate a nord della località di Fort McMurray, vicino al fiume Athabasca. Il contratto prevede l’ingegneria, l’approvvigionamento e la costruzione delle Central Processing Facilities, che dal 2014 dovranno produrre circa 60.000 barili al giorno di bitumi.

Secondo uno studio della Heinrich Boll foundation, il think tank legato ai verdi tedeschi, questo tipo di estrazione provocherebbe dalle 3 alle 5 volte le emissioni di gas serra prodotti dall’estrazione di olio convenzionale.

Le sabbie bituminose sono d’altro canto una risorsa fondamentale per l’economia canadese, e in particolare per quella dell’Alberta, come rileva anche un report pubblicato pochissimi giorni fa dalla Royal Society, che ha formato un gruppo di studio ad hoc per valutare gli impatti di questo tipo di attività sull’ambiente e sulla salute delle popolazioni. Lo studio raccomanda sostanzialmente un gestione “ambientalmente sostenibile” di questo tipo di produzione, ma non conferma evidenze immediate di un impatto negativo sulla salute umana ed animale. Tuttavia nota che ci sono ancora poche prove degli effetti sulle falde acquifere e spiega che in questo modo il Canada avrà maggiori difficoltà a raggiungere gli obiettivi di diminuzione dei gas serra che si è posto.

L’interesse di Eni per le sabbie bituminose in ogni caso non è nuovo. La società ha infatti allo studio un progetto di sfruttamento (e in questo caso non si limiterà alla consegna chiavi in mano degli impianti, ma si occuperà di tutto il ciclo) in Africa. Progetto pochi mesi fa al centro di una campagna di stampa denominata “Cinque domande a Eni sulle attività in Congo Brazzaville”, promossa dalle riviste Valori e Africa, dalla ong Crbm e da Radio Popolare. “Per Saipem la notizia del contratto è buona – nota Davide Tabarelli, direttore di Nomisma Energia – anche perché, che il progetto vada avanti o no, quando lo hanno consegnato, incassano i soldi ed è finita lì”.

Le riserve di questi oli non convenzionali sono molto grandi. Solo il Canada potrebbe averne 500 miliardi di barili. “Il fatto – continua Tabarelli – è che gli impatti ambientali sono forti. Faccio un esempio: io in questo momento sto pedalando sull’asfalto, è come se noi prendessimo l’asfalto, lo scaldassimo, lo lavassimo e ne estraessimo il bitume. Quello sarebbe il nostro petrolio, con notevole dispendio di energia, movimentazione di scarti, grandi distese di terreno che vengono smosse, vapore per separare il bitume dalla terra e poi trasporto, lavorazione e via dicendo. In medio oriente produrre un barile di buon petrolio costa intorno ai due dollari. Qui, per tutti questi motivi, il costo si aggira intorno ai 50-60”.

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