La destra del manganello

Nella puntata sulla satira, il 24 marzo, discutono in studio Vittorio Feltri, Pierluigi Battista della «Stampa», Miriam Mafai di «Repubblica», Marco Travaglio, Dario Fo, Franca Rame, Sabina Guzzanti, Gianfranco Funari, i vignettisti Vincino e Vauro. Santoro apre con l’intervista rilasciata qualche giorno prima da Indro Montanelli a Telemontecarlo, a proposito della telefonata di Berlusconi al Raggio verde e dell’annuncio di Fini sulle imminenti epurazioni alla Rai. Dice Montanelli:

“Tutto questo mi evoca dei ricordi poco simpatici. Era il fascismo che si conduceva così, era il fascismo che proibiva la satira che, in un paese civile e democratico, dovrebbe essere assolutamente indenne da controlli politici… Era Mussolini che non la sopportava. E qui pensano: «ripuliremo la stalla», «faremo piazza pulita». Ma questo linguaggio, al signor Fini, chi glielo ispira? Ci ricorda delle cose che avremmo voluto dimenticare. Questa non è la destra, questo è il manganello. Gli italiani non sanno andare a destra senza finire nel manganello […]. Alla Rai faranno piazza pulita. Lo hanno già annunziato. Ma come fa a chiamarsi democratico un partito che annunzia: «Quando saremo al potere, noi faremo piazza pulita»? Ma questo è un linguaggio del peggiore squadrismo, che loro non sanno cosa fu, ma io me lo ricordo. Questo era il linguaggio con cui [i fascisti] andarono al potere”.

Feltri gli dà subito del voltagabbana: «Montanelli dipinge due figure di Berlusconi. Per oltre vent’anni Berlusconi è stato l’editore di Montanelli e Montanelli è stato bene in quei vent’anni, ha sempre detto che Berlusconi è stato il miglior editore possibile. Oggi lo dipinge come una specie di dittatore che ama le maniere spicce, e che ha una certa vocazione per il manganello. Queste due figure contrastanti non si possono conciliare. Come ha potuto Montanelli stare per vent’anni con un fascista che ama il manganello? A quale Montanelli dobbiamo credere? Come si fa ad avere un’opinione così diversa della stessa persona? Io sono sgomento. C’è un’ambiguità che mi lascia esterrefatto e che vorrei capire». Travaglio difende Montanelli e ricorda che fu Berlusconi a cambiare, trasfigurandosi da imprenditore a politico, non Montanelli, che semplicemente rifiutò di trasformare «Il Giornale» nell’organo di Forza Italia e se stesso in galoppino elettorale del Cavaliere.

Battista assicura che Berlusconi, Fini & C. non faranno nulla di preoccupante: «Non è che l’Ulivo abbia fatto qualcosa di diverso, quando ha vinto le elezioni ha cambiato il Consiglio d’Amministrazione della Rai e ne ha messo un altro: si può dire che c’è stato un difetto della democrazia in questo paese, si può dire che c’è stato un regime autoritario per questo? In Italia c’è questa credenza superstiziosa che le elezioni si vincano grazie alle televisioni, è una falsità assoluta». Sabina Guzzanti prova a obiettare: «Ma, se fosse vero che non si vince per le tv, perché sono così preoccupati per le trasmissioni di satira?». Montanelli telefona in studio:

“Io voglio ringraziare Travaglio, il quale ha detto l’assoluta e pura verità. La versione che lui ha dato degli avvenimenti è quella esatta. Debbo manifestare una certa sorpresa per quello che ha detto Feltri, il quale senza dubbio sa come andarono le cose […]. Feltri dice che la mia condotta verso Berlusconi è stata ambigua. E gli rispondo che io ho conosciuto due Berlusconi: il Berlusconi imprenditore privato che comprò «Il Giornale», e noi fummo felici di venderglielo – perché non sapevamo come andare avanti – su questo patto: tu, Berlusconi, sei il proprietario del «Giornale»; io, direttore, sono il padrone del «Giornale», nel senso che la linea politica dipende solo da me. Quando Berlusconi mi annunziò che si buttava in politica, io capii subito quel che stava per accadere. Cercai di dissuaderlo […]. Ma tutto fu inutile. Dal momento in cui lo decise, mi disse: «Da oggi “Il Giornale” deve fare la politica della mia politica». Io gli dissi: «Non ci pensare nemmeno». Allora lui riunì la redazione a mia totale insaputa, come ha raccontato Travaglio, e disse: «D’ora in poi “Il Giornale” farà la politica della mia politica». E a quel punto me ne andai […]. Nella mia vita ci sono stati due Berlusconi, completamente opposti. E questo non è mica colpa mia […]. Come capo politico è quello che io ho conosciuto in quei brutti giorni in cui scorrettamente, nella maniera più scorretta e più volgare, saltandomi, lui radunò la redazione del «Giornale» per dirle: «Qui si cambia tutto», all’insaputa del direttore. Se questo sembra a Feltri un modo di procedere democratico e civile, è affar suo. Io lo trovo di una volgarità e di una prepotenza… e una segnalazione di certe tendenze che animano il Berlusconi politico che mi mettono un certo sgomento”.

Anche quel Raggio verde è il programma più visto della televisione italiana: 6.133.000 telespettatori, 25,08 per cento di share.

Il 21 aprile, in studio, c’è Dell’Utri in carne e ossa. è una puntata «riparatoria», suggerita dall’Authority per consentirgli il diritto di replica. Gli ospiti sono squilibrati a favore del centrodestra: da un lato due politici, e cioè Dell’Utri scortato dall’amico Lino Jannuzzi, direttore del «Velino», collaboratore del «Foglio», del «Giornale» e di «Panorama» e candidato al Senato per Forza Italia; dall’altra parte di nuovo Di Pietro (nessun esponente dell’Ulivo se l’è sentita di partecipare). C’è anche il giornalista Saverio Lodato, esperto di mafia e collaboratore dell’«Unità». E fino all’ultimo è data per certa la presenza in studio di Max Parisi, giornalista della «Padania», autore in passato di un libro ferocissimo su mafia e Fininvest pubblicato dalla casa editrice della Lega (Soldi sporchi al Nord, Editoriale Nord, Milano, 1996), ma in extremis Roberto Maroni gli consiglia caldamente di evitare.

Dell’Utri ha seguito passo passo la preparazione della puntata. Santoro avrebbe voluto in studio anche Feltri e Flores d’Arcais, ma – secondo «Il Giornale» – il primo ha declinato e sul secondo s’è abbattuto il veto di Dell’Utri. Quest’ultimo s’è allenato per tutta la giornata in via del Plebiscito con uno squadrone di avvocati: Trantino, Tricoli, Federico e Di Peri, che hanno pure trattato con Santoro per la scaletta della trasmissione.

Quella sera, per smorzare sul nascere le solite accuse di faziosità, Santoro concede alla coppia Dell’Utri-Jannuzzi più del doppio del tempo riservato a Di Pietro e Lodato: 66 minuti contro 30. Ma più Dell’Utri parla, più si inguaia. «Tecnicamente, lei è un pregiudicato», lo incalza Di Pietro ricordando la sua fresca condanna definitiva per frode fiscale e false fatturazioni a Torino: «Come può candidarsi al Senato?». «Su questa candidatura – replica Dell’Utri – non mi sento minimamente in colpa. Per me si tratta di legittima difesa. Ho voluto fare il politico per non soggiacere a una ingiustizia». «Ma è inaccettabile – rilancia Di Pietro – perché altrimenti dovremmo candidare tutti i pregiudicati». Poi si parla di Mangano, degli incontri con altri mafiosi (ammessi dallo stesso Dell’Utri) e così via. Alla fine va in onda un breve spezzone dell’intervista al finanziere Filippo Alberto Rapisarda, trasmessa due settimane prima, e una testimonianza di sua moglie che racconta presunte minacce ricevute dal marito. Dell’Utri ha tutto il tempo per replicare, ma non fa una bella figura. Basta guardarlo in faccia e sentirlo parlare, così, al naturale, per trarne un’impressione a dir poco sgradevole: non certo quella di un politico impegnato nella lotta alla mafia. Da un sondaggio riservato del Cavaliere, risulterà che quella comparsata – vista da oltre 5 milioni di italiani (21,74% di share) – ha fatto perdere a Forza Italia parecchie migliaia di voti. Nell’entourage berlusconiano circola un aneddoto sul dopo-Raggio verde: quella sera, uscito dagli studi Rai e rientrato a Palazzo Grazioli, in via del Plebiscito, dove l’amico Silvio gli mette a disposizione alcune stanze, Dell’Utri trova ad aspettarlo un Berlusconi furibondo, che lo affronta a brutto muso: «Te l’avevo detto di non andare da Santoro, sei caduto nel trappolone, hai fatto una pessima figura, ci hai fatto perdere un sacco di voti». Al che Dell’Utri avrebbe raccolto le sue cose e sarebbe andato a dormire in albergo.

Verità o leggenda che sia, è un fatto che Berlusconi il giorno dopo sente il bisogno di esternare tutta la sua rabbia per l’accaduto: «Il raggio verde di ieri è stato un nuovo processo in diretta contro Dell’Utri. Vi è stata una sistematica manipolazione della verità, la Rai è diventata strumento di alterazione sistematica del confronto. Preannuncio fin d’ora un ricorso all’Authority. Mi chiedo cosa farà Santoro nell’ultimo venerdì prima delle elezioni. Mi chiedo proprio che trasmissione possiamo attenderci». Santoro replica:

Nessun processo in diretta, la nostra trasmissione è stata più che rispettosa delle indicazioni che ci aveva dato la stessa Authority: una puntata equilibrata, con due esponenti di Forza Italia contro uno solo dell’altra parte. Altro che processo. In un processo l’accusa ha qualche diritto maggiore. Certo, se fossimo restati in silenzio, senza fiatare, forse non ci sarebbero state altre polemiche. Ma abbiamo il diritto di respirare, di parlare e di fare informazione. Abbiamo mandato in onda solo fatti accertati, ammessi dallo stesso Dell’Utri. Materiali che non potessero essere oggetto di interpretazioni giudiziarie, semmai politiche. Ho evitato accuratamente non solo le deposizioni dei pentiti, ma anche documenti come la famosa telefonata sul cavallo o la versione integrale dell’intervista a Rapisarda. L’ultimo Raggio verde prima del voto sarà come tutti gli altri. Non capisco cosa voglia intendere Berlusconi. Dobbiamo essere liberi di informare, come sancisce la Costituzione. Lui che fa tanti proclami di libertà, alla fine si muove per limitare la libertà degli altri. Evidentemente la vuole solo per se stesso, questa libertà.

Spegnete quel «Raggio verde»

Il 25 aprile parte l’ennesimo esposto all’Authority contro Santoro, il secondo firmato personalmente dal Cavaliere. «Oggetto esclusivo della trasmissione» scrive il futuro premier «è stata la presunta mafiosità dell’on. Dell’Utri, chiamato a partecipare non già per replicare all’intervista di Rapisarda (proditoriamente) inserita nella trasmissione del 6 aprile dedicata alle candidature, ma per difendersi – da vero e proprio imputato – da un dossier di (nuove) accuse predisposto dalla redazione della trasmissione e supportato da una pubblica accusa costituita da Santoro, Ruotolo, Di Pietro e Lodato (nonché dalla “lettrice” di atti giudiziari, Luisella). Solo la pacata fermezza dell’onorevole Dell’Utri, forte della serenità che gli deriva dalla consapevolezza della sua estraneità a ogni imputazione, ha impedito a una trasmissione così impostata di produrre gli effetti devastanti che il suo orchestratore Santoro aveva immaginato sarebbero derivati». Risponde Santoro: «Berlusconi mi chiede di non essere più quello che sono. Secondo lui dovrei mandare in onda una controfigura. E questo non è possibile. Berlusconi ci imputa di aver ricordato che tecnicamente Dell’Utri è un pregiudicato e che negli Usa questo avrebbe reso impossibile una sua candidatura politica. Io d’altra parte sono un giornalista e come tale mi comporto. Peraltro la puntata era stata concordata in tutte le sue parti con l’onorevole Dell’Utri».

L’esposto berlusconiano, poi incredibilmente accolto dall’Authority, viene aspramente contestato dalla stessa Rai. Il capo dell’ufficio legale Rubens Esposito lo definisce «generico, inammissibile e improcedibile» in quanto «non precisa minimamente quando e come sarebbe avvenuta la violazione» e impedisce qualsiasi «difesa e contraddittorio»; ricorda che fin dal 6 aprile Santoro aveva offerto il diritto di replica a Dell’Utri («a prescindere da qualsiasi ordine di codesta Autorità»); e osserva che «il programma era lievemente sbilanciato in favore della Casa delle Libertà, al contrario di quanto è accaduto nei programmi informativi delle emittenti Rti [Mediaset, N.d.A.], nelle quali codesta Autorità ha accertato una enorme sproporzione di presenze delle forze politiche e l’ha sanzionato con un blando richiamo all’equilibrio». Quanto alla conduzione di Santoro, questa fa parte dell’«incomprimibile esercizio del suo diritto di opinione e di critica del tutto compatibile e coerente con il suo ruolo di conduttore di una trasmissione informativa e non di comunicazione politica, dal quale non può pretendersi che assuma la figura del “convitato di pietra” né la funzione del mero semaforo del flusso comunicativo altrui». Eppure, come vedremo, dopo aver sostenuto tutto ciò, la stessa Rai si farà scudo anche della sanzione dell’Authority – nemmeno definitiva – per cacciare Santoro.

Nel rush finale della campagna elettorale, il Cavaliere è preoccupato. Il distacco abissale che fino a qualche tempo prima lo separava da Rutelli va assottigliandosi e l’euforia per una vittoria scontata cede il passo all’allarme per una possibile inversione di tendenza. Una partita che pareva chiusa si riapre all’improvviso. Anche perché gli appelli contro i rischi per la democrazia lanciati dai grandi vecchi Bobbio, Galante Garrone e Sylos Labini, gli allarmi di Montanelli, i servizi della stampa internazionale capitanata dall’«Economist» e gli ultimi vagiti di libera informazione che verranno poi liquidati come «demonizzazione di Berlusconi» risvegliano dal torpore e «mobilitano» tanti elettori delusi dall’Ulivo, intenzionati ad astenersi, e li convincono a trascinarsi un’altra volta alle urne: da uno a due milioni di persone, secondo uno studio del professor Luca Ricolfi dell’Università di Torino.

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“Michele Santoro, censura bulgara” dal libro “Regime” (di Gomez e Travaglio)

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