La carica dei siciliani

Il 30 marzo 1994 Gaspare Mutolo racconta: «A Milano già negli anni Sessanta risiedevano stabilmente importanti uomini d’onore di Cosa nostra che io ho personalmente conosciuti. Ricordo in particolare: Simone Filippone e Salvatore Di Maio della famiglia della Noce; Antonino Grado della famiglia di Santa Maria del Gesù; Giuseppe Bono, Salvatore E-nea (detto Robertino), Ugo Martello e Gaetano Fidanzati del-la famiglia di Bolognetta; Alfredo Bono, fratello di Giuseppe, e Gino Martello della famiglia di San Giuseppe Jato; Gaetano Carollo, Giuseppe Ciulla e Franco Guzzardi della famiglia di Resuttana. Allora tutti ricavavano la maggior parte dei loro guadagni non dal traffico di droga, ma dai sequestri di persona, dalle rapine e, in parte, dal contrabbando di tabacchi». Il rosario di nomi snocciolato da Mutolo è solo una piccola goccia nel mare magnum degli uomini di panza che a quell’epoca si erano trasferiti all’ombra della Madonnina. Mischiati tra i 250.000 immigranti siciliani sbarcati in provincia di Milano nel secondo dopoguerra erano infatti arrivati mafiosi a centinaia.

A partire dal 1961 e fino al 1972, la legge sul soggiorno obbligato ne aveva mandati in Lombardia ben 372. Tutti o quasi, dopo qualche mese, venivano raggiunti da familiari e a-mici. La colonia si gonfiava, si diramava, si riproduceva. Al nord, del resto, l’Onorata società godeva di una libertà pressoché assoluta. Le regole non esistevano, o quasi: a Milano non c’era né una decina né una famiglia cui rendere conto. Gaetano Badalamenti, che con Bontate e Luciano Liggio faceva allora parte del triumvirato al vertice di Cosa nostra, aveva inutilmente tentato di crearne una. Quando era stato mandato in soggiorno obbligato prima a Macherio, ad appena 10 chilometri da Arcore, e poi a Sassuolo, nel modenese, aveva cercato di prendere in mano le redini della situazione ma, come spiegherà Mutolo, «Giuseppe Ciulla e Pippo Bono, allora già molto potenti, si erano opposti perché preferivano agire liberamente».

A Milano, insomma, se si doveva rapire qualcuno, ognuno agiva per sé, senza informare i boss dell’isola. Il legame più forte restava quello con i corleonesi di Liggio, ma l’autonomia dalle decisioni siciliane era pressoché totale 20. Anche e soprattutto dal punto di vista economico. Il ricavato delle attività illecite veniva poi reinvestito nell’edilizia «in complessi di ville», anche se c’era chi, come «i fratelli Bono, Ugo Martello e Salvatore Enea, operava a un livello molto più alto e importante dal punto di vista imprenditoriale». Martello ed Enea – come dimostreranno le indagini della Criminalpol – trattavano da pari a pari con imprenditori dal fatturato miliardario. Racconta ancora Gaspare Mutolo: «Il pericolo dei sequestri, allora molto frequenti, portava gli industriali ad entrare in contatto con gli uomini d’onore, anzi a desiderarne la protezione. Chiaramente, una volta entrato in contatto con Cosa nostra l’imprenditore non poteva e non può più allontanarsene e deve consentire alle varie richieste che possono venire dagli uomini d’onore con cui è in contatto. Tra queste, indubbiamente, c’è anche il reimpiego di capitali d’illecita provenienza».

In genere era l’ippodromo di San Siro il luogo dove i mafiosi riuscivano ad agganciare i Vip. «Ci andavano molti uomini d’onore», conferma Mutolo, «mi ricordo di averci visto spesso Alfredo Bono, Robertino Enea e Vittorio Mangano… San Siro era frequentato da persone che possedevano scuderie di cavalli da corsa e da altri facoltosi appassionati». Tra gli habitué dell’ippodromo di San Siro c’erano anche Dell’Utri e Berlusconi? Mutolo ne è convinto. Pippo Bono, Gaetano Fidanzati e Vittorio Mangano gli spiegarono infatti che dopo una serie di tentati sequestri e di attentati, anche Berlusconi era sceso a patti con Cosa nostra. A convincerlo a trattare – secondo Mutolo – furono i consigli di un altro ex venditore di aspirapolvere porta a porta, l’importatore di impianti Tv Luigi Monti: un uomo che negli anni Ottanta verrà inutilmente indicato da Fbi, pentiti e magistrati milanesi come lo snodo fondamentale del riciclaggio dei soldi della Pizza Connection.

Monti – Joe per gli amici – era cresciuto alla scuola di Joe Adonis, il mafioso italo-americano fondatore del sindacato del crimine negli Stati Uniti. Adonis era arrivato a Milano nel 1958 e si era stabilito in un attico di via Albricci da dove controllava un’immobiliare, la Milbenton, e gestiva occultamente la catena di supermercati Stella. Suoi guardaspalle erano i fratelli Bono, mentre il suo fiscalista di fiducia era Michele Sindona. A questa compagnia – secondo i collaboratori di giustizia – si avvicinano anche Berlusconi e Dell’Utri. Ricorderà ancora Mutolo: «Monti conosceva Berlusconi e Dell’Utri in quanto sia il primo che il secondo erano appassionati – o comunque proprietari – di cavalli. Monti da quando era entrato in contatto con Pippo Bono non era stato più disturbato. Per stare tranquillo non ebbe più bisogno di scorte nonostante fosse una persona molto ricca. Anche questo convinse Berlusconi, come altri industriali, della convenienza di entrare in contatto con Cosa nostra proprio per evitare il rischio di sequestri di persona. Inoltre l’uomo d’onore era considerato un portatore di capitali che non dovevano passare attraverso le rigide regole bancarie».

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