Biografia di un allenatore

Ma chi è Marcello Dell’Utri? Come ha fatto a ottenere la fiducia di Berlusconi guadagnandosi anche l’onore di una futura sepoltura nella cappella funeraria di villa San Martino? E perché un raffinato collezionista di libri antichi come lui è arrivato a stringere accordi con Cosa nostra, a dare del tu a killer e narcotrafficanti, e perfino – come si vedrà – a partecipare ai loro matrimoni e ai loro pranzi di compleanno? Accusato da 17 pentiti e da una miriade d’intercettazioni di essere stato il «canale di collegamento tra Cosa nostra e il mondo economico milanese» 15, Dell’Utri davanti ai magistrati farà il pesce in barile. E all’unisono con Berlusconi di-rà ai giornalisti: «La mia unica colpa è quella di essere nato a Palermo». In realtà, se sul suo passato ci fosse un po’ più di chiarezza, tutto sarebbe più semplice. Infatti, dopo un sodalizio più che trentennale, anche in Fininvest la storia dell’arrivo di Dell’Utri alla corte di re Silvio rimane ancora una sorta di leggenda.

«Si erano conosciuti all’Università a Milano», racconta Bebo Martinotti, componente dello staff storico di Publitalia, «ma poi si erano persi di vista quando Dell’Utri era andato militare. Finita la naia Marcello trovò impiego in Sicilia come direttore e factotum di una banca così piccola che praticamente era l’unico dipendente. Una mattina sentì squillare il telefono mentre stava terminando di alzare la serranda. “Pronto, Marcello? Ti ricordi di me? Sono Silvio Berlusconi. Come va? Senti, sono qui in rada, ho la barca pronta a salpare. Ti va di venire su al nord a lavorare con me?’’. Dell’Utri senza tradire la minima emozione rispose “Sì’’. Tirò giù la saracinesca, si fece portare in taxi fino al porto e s’imbarcò. Da quel giorno non è più sceso dalla barca di Berlusconi». Dell’Utri, interrogato dai magistrati palermitani il 26 giugno 1996, conferma tutto: «Sono andato a Milano nel ’61 per frequentare l’Università statale, sono ritornato a Palermo nel 1970. Ho lavorato presso la Cassa di Risparmio delle Provincie siciliane dapprima a Catania (un anno), poi presso l’agenzia di Belmonte Mezzagno e infine a Palermo; tre anni in tutto, più o meno. Nel ’73 sono tornato a Milano e lì ho iniziato a fare l’assistente del dottor Berlusconi che avevo conosciuto all’università. In quel periodo tra me e lui si era instaurato un rapporto di amicizia e di fiducia. Per questo Berlusconi, in occasione di una sua crociera diretta a Lampedusa, passando da Palermo mi telefonò e mi invitò a lavorare con lui».

In Sicilia, però, c’è chi racconta in un modo diverso questa nuova parabola della folgorazione sulla via di Damasco. «I fratelli Dell’Utri? Come potrei dimenticarli, ho fatto il cronista sportivo per tanti anni e alla Bacigalupo li vedevo spesso» ricorda un giornalista palermitano. «Marcello lavorava in banca, era giovanissimo, ma aveva fatto carriera in fretta. Era diventato subito preposto di agenzia. In pratica era responsabile della filiale dove io avevo il conto. Poi da un giorno all’altro scomparve. E a noi clienti ritirarono i fidi. Giravano brutte voci. Si diceva che avesse fatto affari poco chiari con tipi non raccomandabili». «Seppi poi da suo fratello Giuseppe», prosegue il cronista, «che era andato al nord dove aveva incontrato Berlusconi su un campo di calcio di terza categoria. A quel tempo una squadra del Cavaliere giocava nei campionati minori, ma Berlusconi, che non era tesserato, non poteva stare in panchina. Dell’Utri invece sì, e così Marcello si era ritrovato a fare l’allenatore».

La versione del giornalista sembra plausibile. Proprio Dell’Utri, infatti, in un’intervista del 1990, ha detto più di quanto racconterà ai Pm di Palermo: «Il nome di Silvio me lo aveva fatto un comune amico. Arrivai in Università quando lui era ormai a un passo dalla laurea. Berlusconi subito mi invitò a cena a casa sua e mi fece quasi da tutore: mi passò degli appunti di filosofia del diritto, di diritto penale e delle dispense. In comune scoprimmo la passione per il calcio. Io volevo fare l’allenatore, non l’avvocato». «Nel 1963», prosegue Dell’Utri, «Berlusconi si mise in testa di costituire una squadra e me lo propose. Ci mise dentro suo fratello minore Paolo e una serie di ragazzi del liceo Gonzaga. Lui faceva il presidente, io e Vittorio Zucconi gli allenatori. Insieme riuscimmo a far diventare il Torrescalla Club campione regionale a livello giovanile. Fu un bel periodo. Io studiavo, Silvio già costruiva case. Quando mi laureai me ne andai a Roma a lavorare al centro sportivo del Coni. Ci rimasi quattro anni. Ma con Berlusconi ci sentivamo molto spesso, come minimo ci scambiavamo gli auguri a Natale e a Pasqua» 16.

Marcello Dell’Utri, insomma, proprio come ha ricordato il cronista palermitano, è stato l’antesignano dei Sacchi, dei Capello, dei Tabarez. Restano invece i dubbi sulle sue dimissioni dalla Sicilcassa. La versione del giornalista collima curiosamente con il fonogramma nel quale i carabinieri di Arcore sostengono che la conoscenza tra lui e Mangano avvenne proprio in banca. Per tentare di fare un po’ di chiarezza, i magistrati hanno recuperato negli archivi dell’istituto di credito il fascicolo personale di Dell’Utri. E si sono accorti che anche sul suo passato più antico il manager siciliano è stato reticente. La prima assunzione da parte di Berlusconi risale infatti al 1964: per un anno Dell’Utri riceve lo stipendio dall’Edilnord in qualità di «segretario del presidente della stessa, dott. Silvio Berlusconi». Nel 1966 lascia la Lombardia. Diventa direttore del Centro sportivo Ellis di Roma. Esattamente lo stesso incarico che ricoprirà all’Athletic Club Bacigalupo, poco prima di entrare alla Sicilcassa nel 1970. Un impiego sicuro, ma potenzialmente ad alto rischio: anni e anni d’indagini dimostrano infatti che allora in coda agli sportelli di uomini d’onore ce n’erano a decine.

A quell’epoca anche le filiali della Cassa di Risparmio delle Provincie Siciliane Vittorio Emanuele Orlando trattavano i mafiosi con un occhio di riguardo. Il processo Spatola – la prima importante inchiesta conclusa dal giudice istruttore Giovanni Falcone – proverà come i trafficanti di droga del gruppo Spatola-Inzerillo conducessero le proprie attività, legali e non, grazie alla complice connivenza di alcuni funzionari di questa banca. La Sicilcassa, o Sparcassa, fin dai primi anni Cinquanta aveva peraltro già attirato sospetti di ogni tipo. La Guardia di finanza nel 1963 scrive che Gaspare Cusenza, ex sindaco di Palermo e presidente dell’istituto fino al 1962, «pur non facendone parte in senso letterale, pare non fosse estraneo alle influenze della mafia locale». Il promemoria delle Fiamme Gialle, finito agli atti della commissione Antimafia, susciterà in Parlamento polemiche a non finire. Tanto che nel 1967 l’ufficiale che lo aveva redatto arriverà a smentirne per iscritto il contenuto.

Che il presidente della Sicilcassa frequentasse esponenti dell’Onorata società emerge però chiaramente dalle memo-rie del capomafia Nick Gentile, un “pezzo da 90’’ negli Stati Uniti, consigliere di Al Capone e Lucky Luciano. Nella sua autobiografia, opportunamente censurata prima della pubblicazione, il boss italo-americano racconta la storia dell’appoggio elettorale fornito al senatore fanfaniano Giuseppe La Loggia 17 e descrive anche la propria amicizia con Cusenza. Quello di Gentile è uno spaccato esemplare su mafia e politica in Sicilia nel secondo dopoguerra. Eccolo: «Nel 1951, per le elezioni, mi ero impegnato a dare il mio appoggio a Peppino La Loggia. Tano Di Leo aveva a Roma un informatore e lo venne a sapere. Venne così a Palermo nel mio negozio. Era furioso. Mi disse che non dovevo assolutamente appoggiare La Loggia. Io replicai che mi ero impegnato perché il cognato di La Loggia, quando fui tratto in arresto durante il fascismo, aveva testimoniato a mio favore. Egli era allora podestà di Agrigento. Anche Calogero Volpe era d’accordo con Tano Di Leo contro la parola che avevo dato. Venni chiamato dal senatore Cusenza alla Cassa di Risparmio. Io gli raccontai le mie preoccupazioni per quelle incomprensioni e Cusenza propose di fare una scampagnata tutti quanti assieme per smussare gli angoli. Alla scampagnata dovevamo andare io, Cusenza, Di Leo, La Loggia e Calogero Volpe. Proposi io stesso a Tano Di Leo quella gita ideata da Cusenza, ma egli rifiutò. Informai La Loggia del rifiuto ed egli mi disse: “Zio Cola, dica a Tano, a Volpe e a Cusenza e a tutti gli altri amici che io vengo alla gita per sapere in che cosa ho mancato e, se risulterà che ho mancato, mi scaverete la fossa e mi lascerete là’’. Di fronte a queste parole di umiltà mi sentii incoraggia-to a proseguire nel mio appoggio elettorale. Proprio durante la campagna feci firmare a La Loggia, che era vicepresidente della Regione presieduta da Franco Restivo, lo scioglimento dell’amministrazione socialcomunista di Santa Margherita».

Questa è la Palermo degli anni Cinquanta e Sessanta dove il giovane Marcello Dell’Utri muove i suoi primi passi. Lui e la sua famiglia, proprietaria di una farmacia nel quartiere Matteotti (tradizionale roccaforte delle destre), restano però ai margini dei giri che contano. Dell’Utri riesce a mettere un piede in paradiso solo grazie agli studi e allo sport: prima trascorrendo due anni in una esclusiva scuola media di Bronte, il “Real Collegio Capizzi’’, poi frequentando l’istituto dei salesiani Don Bosco, infine creando con il fratello Beppe (oggi rappresentante di prodotti farmaceutici) la Bacigalupo. Una squadra di calcio che nel Golfo degli aranci tutti ricordano benissimo. Sia perché in campo sono stati visti sgambettare futuri grossi nomi del football come l’allenatore Zdenek Zeman, sia perché ogni estate organizzava il torneo internazionale “Città di Palermo’’. Alla Bacigalupo, Beppe e Marcello Dell’Utri mandavano avanti la scuola calcio. Il vivaio era ampio: 150 giocatori in erba a volte con cognomi importanti, come i figli di Restivo e del conte Arturo Cassina 18, a volte destinati a far carriera nella vita come Pippo Provenzano, l’attuale presidente della Regione Sicilia prosciolto in istruttoria dall’accusa di aver riciclato proventi del narcotraffico per conto del suo omonimo Bernardo Provenzano.

Tutte amicizie che Dell’Utri continuerà a coltivare negli anni, insieme a frequentazioni ben più scabrose. Buona parte di queste conoscenze le farà a Milano dove, prima di insediarsi a villa San Martino, ha affittato un appartamentino in via degli Ottoboni, a due passi da piazza Duomo. Il giovane Dell’Utri prende lì la sua residenza anche se non di rado pernot-ta a casa di Berlusconi, in viale San Gimignano 12. Ufficialmente riassunto nel 1973, dopo la parentesi romana e palermitana, Dell’Utri è accanto al costruttore di Milano 2 senza limiti di orario. La sera va spesso a cena al ristorante “Il Viceré’’, che i carabinieri considerano un abituale punto di ritrovo di mafiosi trapiantati al nord. Nel locale, gestito dal pregiudicato Domenico Brucia, si danno appuntamento anche i siciliani legati al sottobosco democristiano dell’epoca e uomini del clan di Francis Turatello.

Berlusconi, alle prese con la costruzione della città-satellite Milano 2, è già miliardario. Nel 1971 ha acquistato il suo primo elicottero, ma non ha finito di volare con la fantasia. Dentro di sé conserva ancora tutta quella voglia di sfondare che quindici anni prima gli aveva permesso di studiare e lavorare contemporaneamente, arrivando a laurearsi con 110 e lode. Già allora, per chi lo conosceva, la sua sembrava la parabola del self-made man all’italiana, cominciata facendo il fotografo di matrimoni e il venditore di aspirapolvere porta a porta, per poi diventare impiegato alla Immobiliare Costruzioni, e infine costruttore in proprio. «Io farò una città dove c’è tutto, dalla clinica dove si nasce al cimitero», aveva confidato nel 1961 a Dell’Utri. E subito era passato dalle parole ai fatti. Con i capitali procurati dal padre Luigi, direttore generale della Banca Rasini, aveva costruito prima un condominio in via Alciati, poi un intero quartiere a Brugherio.

Nel 1968 Silvio Berlusconi aveva comprato per 3 miliardi 712.000 metri quadrati di terreno a Segrate, dove avrebbe costruito Milano 2. La zona era edificabile solo in parte, e oltre al problema delle licenze edilizie bisognava far sgomberare cinque palazzi che gli occupanti non volevano abbandonare. A convincerli alla resa saranno anche una serie di minacce e attentati 19. A distanza di tanti anni è ormai impossibile stabilire chi e perché abbia ordinato, organizzato e messo a segno quei raid. Ma un fatto è certo: allora a Milano il mondo dell’edilizia era un far west selvaggio dove gli uomini di Cosa nostra la facevano da padroni. Il mercato nero delle braccia, come denunciavano i sindacati, era interamente cosa loro. Subappalti miliardari venivano affidati alle famiglie di mafia Guzzardi, Polizzotto, Ciulla e Cangialosi da grandi imprese impegnate ne-gli scavi della metropolitana milanese come la Codelfa e la Boccardo & Belloni. E a Segrate e a Trezzano sul Naviglio i quartieri residenziali di Milano San Felice e Zingonia vedevano l’Onorata società protagonista delle lottizzazioni.

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